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Un racconto picaresco – lento ritorno a casa
Primo Levi è un autore che amo particolarmente. Condivido i contenuti ma soprattutto sono in perfetta sintonia con la sua scrittura.
Levi prova ad avvicinarsi il più possibile alla (sua) verità e a descriverla nel modo più preciso.
Qualunque effetto speciale è bandito dalle sue pagine; forse ha sempre scritto così, forse ha elaborato questo stile per conferire la massima attendibilità ai suoi scritti, che sono iniziati come testimonianza.
Ha un approccio scientifico alla scrittura: scrivere per comunicare, con la massima chiarezza.
Il lavoro più importante viene fatto tuttavia sulle emozioni, che vengono lasciate riposare: parla il cervello, con una dolcezza, un ritegno e una umana comprensione degne di un patriarca.
Detto questo, La tregua è il tempo che trascorse fra la liberazione da Auschwitz (27 gennaio ’45) e il ritorno a casa (19 ottobre ’45), tempo trascorso a vagare a piedi o in treno per Polonia, URSS, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria, Germania insieme a centinaia di italiani che come lui tentavano di rimpatriare. Questo tempo indefinito venne vissuto come un limbo, nello stupore generale dei Russi (il nazismo è finito, il cielo è azzurro, avete da mangiare, di cosa vi preoccupate?) ma in seguito venne pensato come una lunga convalescenza dello spirito, un dono del destino, tempo dedicato all’elaborazione della terribile esperienza.
Il libro è un racconto delle avventure picaresche di queste centinaia di italiani più o meno affidati ai russi.
Il ricordo che Levi ha dei russi è buffo: estremamente disorganizzati, benevoli, dall’aspetto talvolta selvaggio,
abituati a vivere l’istante.
Le avventure raccontate sono molto varie, tanti gli esseri umani che appaiono e scompaiono e ci sono storie straordinarie.
E’ un libro abbastanza gioioso, la primavera con le sue speranze che segue il lungo inverno.
Rimane il ricordo del giovane Levi, che avvicinandosi all’Italia sente montare come un’onda la necessità di raccontare; che la notte, a Torino, nel suo letto sognava atmosfere familiari e gioiose che pian piano sbiadivano, si svuotavano, raggelavano, fino a rendersi conto che era ancora un altro risveglio ad Auschwitz: Wstawac –Svegliarsi-.
Primo Levi è un autore che amo particolarmente. Condivido i contenuti ma soprattutto sono in perfetta sintonia con la sua scrittura.
Levi prova ad avvicinarsi il più possibile alla (sua) verità e a descriverla nel modo più preciso.
Qualunque effetto speciale è bandito dalle sue pagine; forse ha sempre scritto così, forse ha elaborato questo stile per conferire la massima attendibilità ai suoi scritti, che sono iniziati come testimonianza.
Ha un approccio scientifico alla scrittura: scrivere per comunicare, con la massima chiarezza.
Il lavoro più importante viene fatto tuttavia sulle emozioni, che vengono lasciate riposare: parla il cervello, con una dolcezza, un ritegno e una umana comprensione degne di un patriarca.
Detto questo, La tregua è il tempo che trascorse fra la liberazione da Auschwitz (27 gennaio ’45) e il ritorno a casa (19 ottobre ’45), tempo trascorso a vagare a piedi o in treno per Polonia, URSS, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria, Germania insieme a centinaia di italiani che come lui tentavano di rimpatriare. Questo tempo indefinito venne vissuto come un limbo, nello stupore generale dei Russi (il nazismo è finito, il cielo è azzurro, avete da mangiare, di cosa vi preoccupate?) ma in seguito venne pensato come una lunga convalescenza dello spirito, un dono del destino, tempo dedicato all’elaborazione della terribile esperienza.
Il libro è un racconto delle avventure picaresche di queste centinaia di italiani più o meno affidati ai russi.
Il ricordo che Levi ha dei russi è buffo: estremamente disorganizzati, benevoli, dall’aspetto talvolta selvaggio,
abituati a vivere l’istante.
Le avventure raccontate sono molto varie, tanti gli esseri umani che appaiono e scompaiono e ci sono storie straordinarie.
E’ un libro abbastanza gioioso, la primavera con le sue speranze che segue il lungo inverno.
Rimane il ricordo del giovane Levi, che avvicinandosi all’Italia sente montare come un’onda la necessità di raccontare; che la notte, a Torino, nel suo letto sognava atmosfere familiari e gioiose che pian piano sbiadivano, si svuotavano, raggelavano, fino a rendersi conto che era ancora un altro risveglio ad Auschwitz: Wstawac –Svegliarsi-.