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April 17,2025
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Il faticoso ritorno alla normalità dopo la guerra. Racconto di un viaggio stanco, tra uomini irrobustiti dalle sofferenze: personaggi indimenticabili e vicende umane di fame e di sete. Faticoso rispetto al poetico Se questo è un uomo, forse andrebbe letto in continuità. Con il primo si piange , con La tregua si sorride spesso. Da ricordare le osservazioni di Levi sulle differenze tra Tedeschi (meccanici e organizzati) e i Russi (arronzoni e festaioli).
April 17,2025
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Read after "Survival in Auschwitz". The story of Primo Levi's return home. You won't want to miss it. By the way fellow readers, Primo Levi was introduced to me by Tzvetan Todorov in his book "Hope and Memory". You need to read that one too.
April 17,2025
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La tregua è (fortunatamente, direi) romanzo di minore impatto rispetto a “Se questo è un uomo”. A volte ironico, a volte divertente, è assillo di speranze e di timori per il futuro che attende Levi in patria; domani sconosciuto e temuto, ambiguo e indefinibile, che puzzerà, nei sogni che sono dentro ai sogni, sempre di lager. Quasi un taccuino di viaggio, che da Auschwitz attraversa la Russia la Romania l’ Ungheria e finalmente, dopo 35 giorni, approda in Italia, La tregua racconta luoghi persone ed eventi con parole lucide e smerigliate di grande scrittore. Due o tre cazzotti, di quelli che levano il fiato però, Levi li tira comunque. Uno di questi riguarda Hurbinek, il bambino che non ha mai visto gli alberi, perché nato ad Auschwitz. *************************************************************** La mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del piú piccolo ed inerme fra noi, del piú innocente, di un bambino, di Hurbinek. Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia dì Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l'orecchio: era vero, dall'angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome, Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c'erano fra noi parlatori di tutte le lingue d'Europa: ma la parola di Hurbínek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua. Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, – Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui - egli testimonia attraverso queste mie parole. ************************************************************** Nulla resta di lui, e chissà di quanti altri. Questo commento desidera essere un povero contributo alla sua memoria.
April 17,2025
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E' stato più difficile il viaggio di andata o il viaggio di ritorno?

Attraverso un diario quasi corale, Levi racconta il non facile percorso per ritornare a casa dopo la prigionia ad Auschwitz.
I capitoli iniziali sono i più gravosi: c'è tutta l'incredulità per la libertà appena riconquistata (e non più sperata), il senso di vergogna per essere sopravvissuto e la paura dell'incognito per quello che sarebbe venuto. Mano a mano la lettura diventa un pò più spensierata, la speranza del rientro si fa più solida fino a concretizzarsi del tutto.
Il finale però lascia l'amaro in bocca, con i demoni scaturiti dal ricordo di un'unica parola "Wstawac", che l'autore sa benissimo non lo lasceranno mai più. Ma soprattutto, con la consapevolezza che l'odio e il disprezzo saranno sempre insiti nella natura umana, pronti a scatenare nuove guerre.
I passaggi su cui soffermarsi sarebbero davvero tanti. Non ultimo il concetto alla base del titolo stesso. Quel breve attimo di respiro tra l'orrore fisico del prima e l'orrore psicologico del dopo, in cui si colloca l'intero viaggio di ritorno, costellato di personaggi che testimoniano attraverso le parole dell'autore, ognuno con il proprio modo di affrontare il rientro e le proprie storie, che a tratti commuovono e a tratti fanno sorridere. Indimenticabili Cesare e l'infermiera Marja.
Interessante anche il confronto tra tedeschi e russi: i primi sempre precisi e organizzati, nulla di quello che fanno è lasciato al caso, al contrario dei secondi che aspettano che le cose si pianifichino da sole. Ma allo stesso tempo ne riconosce la superiorità della disciplina, molto più spontanea rispetto a quella meccanica dei tedeschi.
Ma soprattutto mi ha colpito la polarità di due aspetti che per Levi (e non solo) mi è parso risultino essenziali sopra ogni altra cosa: il bisogno di contatto umano da un lato, e il desiderio di solitudine dall'altro.

Non metto voto, perchè il valore dell'opera è talmente inestimabile che sarebbe irriverente racchiuderlo in cinque misere stelline.
April 17,2025
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I think this is one of the most shockingly beautiful books. How can you be so filled with depression and hope at the same time? The images of his travels throughout Europe, his view of the world as if he is an extraterrestial learning how to live. Everyone should read this book.
April 17,2025
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Secondo libro della trilogia e continuo a chiedermi perché non l'ho letto prima. Primo Levi racconta il lungo percorso dalla fine della prigionia in campo di concentramento al ritorno a casa. È sconcertante la forza e la resilienza avuta, la fiducia riposta negli altri nonostante quanto vissuto. E la scrittura di Levi ti trasporta in quei momenti, come se fossi stato lì. Quando leggi sei dentro e tutto ciò che hai intorno non lo senti, non esiste. È questa la potenza della sua scrittura.
April 17,2025
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Primo Levi's books should be mandatory reading for every European.
April 17,2025
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La tregua è territorio di transito, non solo fisico ma, e forse soprattutto, mentale; è un momento di passaggio fra l'inferno del Lager e la normalità tanto agognata, quel ritorno alla libertà che solo nei sogni osavamo sperarla. In queste pagine Primo Levi ci racconta di quell'umanità che tenta di ricostruire sé stessa dopo la devastazione subita dall'assurda vita del campo di concentramento. Lo fa descrivendo una serie di memorabili personaggi, esemplari umani scaleni, segnati nel fisico e nell'animo. Costruisce così una narrazione collettiva in cui possiamo posare uno sguardo sulle persone che hanno dovuto compiere questo travagliato, disordinato e decisamente caotico viaggio di rimpatrio. Un viaggio che è segnato dalla gioia di vivere ma anche dalla paura di dover affrontare nuove prove, nuovi ostacoli per compiere non solo il ritorno alle proprie case ma anche quel ritorno a sé stessi ben più difficile e complesso, seppur possibile.
April 17,2025
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Tot mijn scha en schande moet ik toegeven dat ik er nog nooit had bij stilgestaan hoe de broodmagere, erg verzwakte concentratiekampbewoners na hun bevrijding ooit thuis geraakten. Ik ging er van uit dat ze allemaal in een rechte lijn naar huis toe geholpen werden door de geallieerden. Uit het verhaal van Primo Levi blijkt mijn groot ongelijk. Zijn tocht huiswaarts leest als een ware avonturenroman. Hierdoor leest hij héél anders dan zijn “Is dit een mens”. Waar ik bij die eerste vooral tot het boek aangetrokken was door zijn gedachten en overpeinzingen, kon ik dit boek niet neerleggen omdat ik wou weten hoe de terugtocht hem verging en wat hem allemaal overkwam. Een groot deel van zijn reis speelt zich af op gammele treinen maar dit boek leest als een TGV!
April 17,2025
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"Atempause" beginnt mit der Befreiung des Autors aus dem KZ Auschwitz Monowitz, seiner Überführung ins Stammlager Auschwitz, das in ein Lazarett umgewandelt worden ist und dem Lange Heimweg zurück nach Italien. Im Zeitraum von insgesamt etwa einem 3/4 Jahr verbringt Levi zunächst einige Monate in einem Lager bei Kattowitz, danach einige Monate in einem Lager bei Minsk. Die eigentliche Rückreise über Rumänien, Ungarn, Österreich, Deutschland und nach einmal Österreich nach Italien dauert dann nur wenige Wochen.

Levi kann gut schreiben aber dieses dünne Buch ist nicht von der literarischen Qualität des "Periodischen Systems", sondern ein nüchterner Tatsachenbericht, der teils interessant ist, teils aber keinen bleibenden Wert hat. So werden auch eingehend die Spielfilme beschrieben, die in den Lagern gezeigt werden und ein beachtlicher Teil des Werkes nehmen Schwarzmarktszenen ein.
April 17,2025
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Trattasi di libro certamente menzognero. In questo libro tutti trombano, vanno a mignotte, s'infrattano con ogni essere più o meno consenziente che si trovi sulla loro strada. Tutti tranne lui, il Levi, che rimane sempre puro siccome un angelo vantando dell'universo femminile: l'intelligenza, la prestanza, lo spirito di sacrificio ecc ... ecc ... mai una volta che dica, che so ... "Tatiana aveva un bel culo che dopo tre mesi di astinenza occupava nel mio cervello un posto uguale al suo volume" Ipotesi: l'ha scritto che era già sposato e ha preferito evitare spiegazioni imbarazzanti.
Scherzi a parte Levi traccia un capolavoro che, se non ha la forza di denuncia di "Se questo è un uomo" in compenso dal punto di vista narrativo funziona perfettamente, è commovente, tenero, avvincente e soprattutto percorso da una vena ironica corrosiva. La descrizione dell'arbitraggio della partita di pallone m'ha fatto scompisciare anche nella sala d'attesa del dentista.
April 17,2025
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La guerra, questa grande nemica che è tornata senza pietà al centro dei nostri discorsi quotidiani, imponendosi all’attenzione mediatica massiva, ma che in realtà, in maniera meno plateale, ci accompagna praticamente da sempre.

Primo Levi aveva capito questa cosa già nel 1969 quando ha scritto questo libro, dopo esser stato tra i pochi liberati dal campo di concentramento di Buna-Auschwitz, con delusione cocente di tutte le speranze di quei poveri esseri umani, uomini e donne, che la avevano subita direttamente sulla propria pelle e nel modo peggiore esistente: senza alcuna possibilità di difendersi, venendo annientati.

“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.”

Eppure questo libro, secondo il senso comune, dovrebbe essere il libro della libertà, del sollievo…cos’è che non va?
Non va che dal giorno della liberazione dai Lager questi uomini cominciano una trafila inenarrabile, fatta di palleggiamenti della responsabilità, di spostamenti da un posto all’altro, quasi come se l’esistenza di questi sopravvissuti fosse una presenza scomoda che si vorrebbe far finta non esista.

“La notizia ci precipitò in un intrico di dubbi e di angosce. Avevamo sperato in un viaggio breve e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci, verso un surrogato accettabile delle nostre case; e questa speranza faceva parte di una ben più grande speranza, quella in un mondo diritto e giusto, miracolosamente ristabilito sulle sue naturali fondamenta dopo una eternità di stravolgimenti, di errori e di stragi, dopo il tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua, come tutte quelle che riposano su tagli troppo netti fra il male e il bene, fra il passato e il futuro: ma noi ne vivevamo. Quella prima incrinatura, e le molte altre inevitabili, piccole e grandi, che seguirono, furono per molti di noi occasione di dolore, tanto più sensibile quanto meno previsto: poiché non si sogna per anni, per decenni, un mondo migliore, senza raffigurarlo perfetto.
Invece no: era avvenuto qualcosa che solo pochissimi savi tra noi avevano previsto. La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, così lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure.”

E questo vale in particolar modo per gli italiani che sono stati alleati degli invasori e quindi ipoteticamente nemici, nonostante molti russi abbiano visto coi loro stessi occhi le condizioni in cui versavano al momento dell’abbandono da parte dei nazisti, e gli abomini che venivano perpetrati in quei luoghi di morte.
Sembra che la loro tortura non sia ancora destinata a giungere alla fine, ma non per i tormenti dovuti ai traumi subiti, che, come purtroppo ormai sappiamo succede e come ci dice lo stesso Levi alla fine del libro, accompagneranno tutti i sopravvissuti finché vivranno,

“Di 650, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto in quei venti mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore. Sentivamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz: dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze, intorno ad ogni casa deserta, ad ogni cortile vuoto? Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà? Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino.”

ma perché nessuno vuole accollarsi la responsabilità di farli rimpatriare.

E gli si costruiscono perciò nuovi campi ad hoc, per ospitarli, guarda caso operando di nuovo delle distinzioni per etnie (ricorda qualcosa?).
Certo lì non ci sono lavori forzati o selezioni per la morte, ma la dignità resta ancora una volta qualcosa di lontano da raggiungere, nella maggior parte dei casi, nonostante queste persone sopportino tutto con grande spirito di sacrificio, anzi direi persino con sollievo, il sollievo dovuto al fatto che nulla di tutto quel che potranno subire in quei luoghi sarà peggio di ciò che hanno già dovuto subire in precedenza.
Eppure si devono scontrare giorno per giorno, con l’indifferenza di alcune persone;

“…mi sembrava di aggirarmi fra torme di debitori insolventi, come se ognuno mi dovesse qualcosa, e rifiutasse di pagare. Ero fra loro, nel campo di Agramante, fra il popolo dei Signori: ma gli uomini erano pochi, molti mutilati, molti vestiti di stracci come noi. Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare in umiltà il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa.”

con il rischio continuo di essere visti come nemici solo perché si usava la lingua tedesca per riuscire a comunicare;

“Anche lui, ed era il terzo, mi raccomandò di non parlare tedesco. Gli chiesi perché: mi rispose con un gesto eloquente, passandosi l’indice e il medio, di coltello, fra il mento e la laringe, e aggiungendo tutto allegro: -Stanotte tutti tedeschi kaputt.
Si trattava certamente di una esagerazione, e comunque di una opinione-speranza: ma in effetti incrociammo il giorno dopo un lungo treno di vagoni merci, chiusi dall’esterno; era diretto verso levante, e dalle feritoie si vedevano molti visi umani in cerca d’aria. Questo spettacolo, fortemente evocatore, suscitò in me un groviglio di sentimenti confusi e contrastanti, che ancora oggi stenterei a districare.”

con l’ostilità e i pregiudizi duri a morire.

“Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, cose che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. In realtà, l’avvocato era cortese e benevolo: mi interrogava, ed io parlavo vertiginosamente di quelle mie così recenti esperienze, di Auschwitz vicina, eppure, pareva, a tutti sconosciuta, dell’ecatombe a cui io solo ero sfuggito, tutto. L’avvocato traduceva in polacco a favore del pubblico. (…) L’avvocato mi descriveva al pubblico non come un ebreo italiano , ma come un prigioniero politico italiano.
Gliene chiesi conto, stupito e quasi offeso. Mi rispose imbarazzato: -C’est mieux pour vous. La guerre n’est pas finie.- le parole del greco.
Sentii l’onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra uomini, del sentirsi vivo, rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre. I miei ascoltatori se ne andavano dovevano aver capito. Qualcosa del genere avevo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli.”

La triste intuizione di Levi in questo libro, quella verità angosciante con cui si trova a scontrarsi e a fare i conti, è che la guerra non era finita: “Guerra è sempre”, e che la pace vera, quella profonda e priva di violenze, aggressioni, prevaricazione e razzismo, non ci sarebbe stata davvero mai.
E le sue parole mi hanno fatto ripensare ad un altro libro letto da poco “I fratelli Ashkenazi”, dove viene messo in risalto come, proprio durante gli stessi anni, nel periodo in cui i russi diventavano “i salvatori”, gli stessi russi insieme ai polacchi praticavano quelli che sono stati definiti pogrom, anche contro gli stessi ebrei: gli aiutanti diventavano i carnefici.
Non esiste mai una sola verità e un solo punto di vista.
E in un mondo come quello in cui viviamo, se non si provvederà a modificare la nostra società profondamente, la pace sarà solo un breve momento di tregua tra una guerra e l’altra, tra un’aggressione e la successiva, tra un orrore e l’altro.

“Era la grande tregua: poiché non era ancora cominciata l’altra dura stagione che doveva seguire, nè ancora era stato pronunciato il none nefasto della guerra fredda.”
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