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"Avete mangiato qualcosa che v'ha fatto male?" indagò Bernardo.
Il Selvaggio fece cenno di sì. "Ho mangiato la civiltà."
Non so perché abbia aspettato così tanto a leggere questo testo. E dire che è praticamente universalmente considerato il terzo legittimo membro di quel trittico distopico che include 1984 e Fahrenheit 451.
Il mondo nuovo è esattamente il rovescio del capolavoro orwelliano, come rivendicato dallo stesso autore: lì il controllo forzato attraverso un sistema di punizioni, qui un controllo più morbido attraverso un sistema di premi. Alla gente viene dato esattamente ciò che vuole: e questo basta a mantenerla inerme e inerte, persino si riesce a disinnescare qualunque conflitto. Con l'aiuto di qualche trovata eugenetica (per niente buona, in realtà) e l'applicazione rigorosissima del condizionamento psicologico ed ipnagogico. In una società ormai mondiale, che ha annullato il gioco politico nell'apoteosi legittimata di una classe dirigente-casta; che è stata preventivamente indotta ad accettare una classificazione in caste di uomini superiori o inferiori, super intelligenti o malformati, ma tutti messi nelle condizioni di poter raggiungere la propria felicità (illusoria); che si riconosce unicamente nel rispetto dei suoi tre principi di Comunità, Identità, Stabilità; che ha sdoganato la libertà sessuale, rinunciando per sempre, tuttavia, alla genitorialità e all'istituzione familiare (al punto che il concetto stesso di genitore suscita orrore e ribrezzo!) - in questa società si consuma il dramma esistenziale di John, il Selvaggio, uno dei pochi esseri umani a vivere in una realtà ancestrale e ancora naturale, lasciata ai margini dalla totalizzante società di questo brave new world, che, una volta entrato in contatto con essa, rimane letteralmente intossicato dalla civiltà. Nello scontro tra il Selvaggio, figlio di genitori naturali, esponente di una umanità ancora naturale, e che ama declamare versi di Shakespeare, e la vasta gamma di personaggi che incontra, l'autore fa rivivere lo scontro tra la civiltà umana e la natura, tra l'era delle macchine e del progresso e l'età innocente, quella contrapposizione tra natura e società tanto cara a Rousseau. E se, da un lato, Huxley propende esplicitamente per l'esaltazione della sua utopia naturale (che, trent'anni più tardi, dipingerà nel suo ultimo romanzo, L'isola), d'altra parte la lotta non può che terminare a favore del più forte.
Se pure la storia è costituita da ingredienti semplici, un intreccio minimo ed uno stile piuttosto pallido e insapore, il romanzo è ben sorretto da una grandissima visionarietà, da un elevato spirito critico e da un ricchissimo complesso di conoscenze nei campi più disparati, dalla genetica alla psicologia, dalla clonazione al condizionamento. Ai giorni nostri ormai si perde, eppure va sentito l'ardore della sua immaginazione, che negli anni Trenta riusciva a parlare di clonazione, procreazione artificiale e condizionamento in un modo che ancora oggi risulterebbe abbastanza inquietante. Fondamentale, dunque, la seconda parte del libro, Ritorno al mondo nuovo, un'appendice scritta decenni dopo che raccoglie tutte le considerazioni di Huxley, dalla politica alla psicologia. Se anche risultano ormai accettate le visioni da incubo del progresso tecnologico di Huxley, nondimeno restano amaramente attuali i problemi sollevati, il conflitto tra società ed individuo, il problema sociale delle droghe, l'illusione della felicità, il compromesso, soprattutto, tra realizzazione personale e progresso della società. E resta ancora, pesante come un macigno, l'interrogativo senza risposta: fino a quanto siamo disposti a rinunciare alla nostra libertà per perseguire la realizzazione di una felicità illusoria?
Il Selvaggio fece cenno di sì. "Ho mangiato la civiltà."
Non so perché abbia aspettato così tanto a leggere questo testo. E dire che è praticamente universalmente considerato il terzo legittimo membro di quel trittico distopico che include 1984 e Fahrenheit 451.
Il mondo nuovo è esattamente il rovescio del capolavoro orwelliano, come rivendicato dallo stesso autore: lì il controllo forzato attraverso un sistema di punizioni, qui un controllo più morbido attraverso un sistema di premi. Alla gente viene dato esattamente ciò che vuole: e questo basta a mantenerla inerme e inerte, persino si riesce a disinnescare qualunque conflitto. Con l'aiuto di qualche trovata eugenetica (per niente buona, in realtà) e l'applicazione rigorosissima del condizionamento psicologico ed ipnagogico. In una società ormai mondiale, che ha annullato il gioco politico nell'apoteosi legittimata di una classe dirigente-casta; che è stata preventivamente indotta ad accettare una classificazione in caste di uomini superiori o inferiori, super intelligenti o malformati, ma tutti messi nelle condizioni di poter raggiungere la propria felicità (illusoria); che si riconosce unicamente nel rispetto dei suoi tre principi di Comunità, Identità, Stabilità; che ha sdoganato la libertà sessuale, rinunciando per sempre, tuttavia, alla genitorialità e all'istituzione familiare (al punto che il concetto stesso di genitore suscita orrore e ribrezzo!) - in questa società si consuma il dramma esistenziale di John, il Selvaggio, uno dei pochi esseri umani a vivere in una realtà ancestrale e ancora naturale, lasciata ai margini dalla totalizzante società di questo brave new world, che, una volta entrato in contatto con essa, rimane letteralmente intossicato dalla civiltà. Nello scontro tra il Selvaggio, figlio di genitori naturali, esponente di una umanità ancora naturale, e che ama declamare versi di Shakespeare, e la vasta gamma di personaggi che incontra, l'autore fa rivivere lo scontro tra la civiltà umana e la natura, tra l'era delle macchine e del progresso e l'età innocente, quella contrapposizione tra natura e società tanto cara a Rousseau. E se, da un lato, Huxley propende esplicitamente per l'esaltazione della sua utopia naturale (che, trent'anni più tardi, dipingerà nel suo ultimo romanzo, L'isola), d'altra parte la lotta non può che terminare a favore del più forte.
Se pure la storia è costituita da ingredienti semplici, un intreccio minimo ed uno stile piuttosto pallido e insapore, il romanzo è ben sorretto da una grandissima visionarietà, da un elevato spirito critico e da un ricchissimo complesso di conoscenze nei campi più disparati, dalla genetica alla psicologia, dalla clonazione al condizionamento. Ai giorni nostri ormai si perde, eppure va sentito l'ardore della sua immaginazione, che negli anni Trenta riusciva a parlare di clonazione, procreazione artificiale e condizionamento in un modo che ancora oggi risulterebbe abbastanza inquietante. Fondamentale, dunque, la seconda parte del libro, Ritorno al mondo nuovo, un'appendice scritta decenni dopo che raccoglie tutte le considerazioni di Huxley, dalla politica alla psicologia. Se anche risultano ormai accettate le visioni da incubo del progresso tecnologico di Huxley, nondimeno restano amaramente attuali i problemi sollevati, il conflitto tra società ed individuo, il problema sociale delle droghe, l'illusione della felicità, il compromesso, soprattutto, tra realizzazione personale e progresso della società. E resta ancora, pesante come un macigno, l'interrogativo senza risposta: fino a quanto siamo disposti a rinunciare alla nostra libertà per perseguire la realizzazione di una felicità illusoria?