Exceptional writing by an exceptional man. The tales of Faussone stay with me like painted pictures I carry around everywhere. I first read this book 20 years ago and I can still remember the anchovies and the aunts. And if you don't fancy this engineering masterpiece, then try If This Is A Man.
«Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia, ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa o sa male, o non vuole, fosse perciò stesso un uomo libero.»
Il nostro Levi sa sempre come fare dei romanzi riflessivi e al contempo scorrevoli. Libro particolarmente diretto, reale, non ci sono giri di parole, non c’è un background nascosto in ciò che parlano. Semplicemente la crudele realtà lavorativa in un paese completamente dominato dal capitale.
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.
Questo, in estrema sintesi, è il succo del romanzo. Non è un romanzo fatto di storie clamorose o trame ardite, ma è l'espressione della felicità più autentica, quella delle piccole cose, del lavoro quotidiano, che non per forza deve essere "eroico", basta solo che lo si ami. Poco importa se si è un chimico, uno scrittore, un montatore di gru o un battitore di lastre.
Il termine ‘libertà’ ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo.
Inevitabile il confronto con quel beffardo Arbeit macht frei sul cancello di Auschwitz. E' come se Levi in questo libro abbia voluto, consapevolmente o no, ridare dignità a quelle parole, strapparle di mano ai nazisti, purgarle da tutto il dolore e l'infamia di cui sono state caricate e dimostrare che è vero che il lavoro, quando lo si ama, può renderci liberi. E felici.
Lascio qui altri due passaggi che, da mamma e da chimico, mi hanno strappato un sorriso.
Io gli ho detto, a conclusione, che con le similitudini bisogna stare attenti, perché magari sono poetiche, ma dimostrano poco: perciò si deve andare cauti nel ricavarne indicazioni educative-edificanti. Deve l'educatore prendere esempio dal fucinatore, che battendo rudemente il ferro gli dà nobiltà e forma, o dal vinaio, che ottiene lo stesso risultato sul vino distaccandosi da lui e conservandolo nel buio di una cantina? E' meglio che la madre abbia a modello la pellicana, che si spenna e si denuda per rendere morbido il nido dei suoi nati, o l'orsa, che li incoraggi ad arrampicarsi in cima agli abeti e poi li abbandona lassù e se ne va senza voltarsi indietro? E' il miglior modello didattico la tempra o il rinvenimento? Alla larga le analogie: hanno corrotto la medicina per millenni, e forse è colpa loro se oggi i sistemi pedagogici sono così numerosi, e dopo tremila anni di discussione non si sa ancora bene quale sia il migliore.
Io quei progettisti non li ho mai visti in faccia, non so neppure di che razza fossero, però ne ho conosciuti degli altri, e tanti, e so che ce n'è di diverse maniere. C'è il progettista elefante, quello che sta sempre dalla parte della ragione, che non guarda né l'eleganza, né l'economia, che non vuole grane e mette quattro dove basta uno: e in genere è un progettista già un po' vecchiotto, e se lei ci ragiona sopra vede che è una faccenda triste. C'è il tipo rancino, invece, che sembra che ogni rivetto lo deva pagare di tasca sua. C'è il progettista pappagallo, che i progetti invece di studiarci su tira a copiarli come si fa a scuola, e non si accorge che si fa ridere dietro. C'è il progettista lumaca, voglio dire il tipo burocrate, che va piano piano, e appena lo tocchi si tira subito indietro e si nascone dentro al suo guscio che è fatto di regolamenti: e io, senza offendere, lo chiamerei anche il progettista balengo. E alla fine c'è il progettista farfalla, e io credo proprio che i progettisti di quel ponte fossero di questo tipo qui: e è il tipo più pericoloso, perché sono giovani, arditi e te la dànno a intendere, se gli parli di soldi e di sicurezza ti guardano come uno sputo, e tutto il loro pensiero è per la novità e per la bellezza: senza pensare che, quando un'opera è studiata bene, viene bella per conto suo.
After Il sistema periodico,La chiave a stella is probably my favorite of Primo Levi's books (although I enjoy and admire them all, with the partial exception of Se non ora, quando?). And I really wish that some of the many American readers of that briefly fashionable American book Shop Craft as Soulcraft had read Levi's delightful and profound Chiave a stella instead of (okay, or in addition to) Crawford's.
Another thing I'll mention, something I noticed only after going briefly back to the book several years after I first read it, is the degree to which it in some ways draws on and is an homage to the excellent books (nonfiction) of Levi's great literary friend (one of his two brothers, he calls him) Nuto Revelli. The structure is similar to that of Revelli's oral histories, and many of Revelli's themes (manual labor, the retreat from Russia, the problems veterans have on returning from war), as well as some of the very phrases used by Revelli's informants ("il pane degli altri ha sette croste"), are echoed in La chiave a stella.
Two other slightly random remarks: First, the title of the American edition of this book (The Monkey's Wrench) is an embarrassment. One can hope only that whatever editor or marketer came up with this completely inaccurate abomination got summarily fired in one of those publishing mergers and takeovers we're always hearing about (of course, what's more likely is that this asshole was made CEO). The other thing I wanted to mention is that in a talk I once gave, unrelated to the subject of this book, I cited the bit about enjoying your work being the closest thing to real happiness. It's so obviously true it's almost hackneyed. And yet when I brought it up--and this in a country whose inhabitants are reputed second only to the Italians when it comes to a love of dolce far niente--I heard slight gasps. Of sudden recognition, I think it was.
Anche se il libro è breve, la sua lettura mi ha un po' rallentato e non mi ha preso molto. Il racconto è incentrato su un dialogo fra, si presuppone lo stesso Levi ed un operaio: Tino Faussone. Faussone racconta a Levi episodi dei suoi vari lavori in giro per il mondo, sempre lasciando intendere di amare il proprio lavoro pur se quello di un operaio. Ma Faussone non è un personaggio esistente, ma un insieme di persone che lo stesso Levi ha incontrato. La lettura è fatta di termini tecnici che non capivo o non conoscevo e Levi fa parlare Faussone in modo semplice usando dialoghi, rurali per così dire. Ma a me il libro ha annoiato.
Cinque stelle perché Faussone esce dalle pagine del libro e si mette comodo accanto a te a raccontare, se ne sente la voce forte e chiara, ed è un piacere ascoltarlo.
La questione del lavoro. Ecco, mi sento un po’ scomoda a parlarne perché io con il lavoro in generale ho un pessimo rapporto, per cui le riflessioni di Primo Levi in questo libro, su questo argomento, che è poi il suo tema principale, mi spalancano un abisso su cui mi affaccio e vedo soprattutto roba ingarbugliata che esala fumi tossici.
Comunque. Dice lui che “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è un privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”
(ma allora, penso, io ho accesso alla felicità? E una cassiera del supermercato, potrà mai amare il proprio lavoro, avrà mai accesso alla felicità? - beh, Thomas Bernhard era molto felice quando faceva il garzone dal salumiere, ma insomma, tutti i lavori si possono amare, presumono una competenza che dà dignità?)
Sostiene altresì che mentre esiste una retorica del lavoro nobilitante falsa e vanagloriosa, “esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio od altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia, ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo”. E infatti.
Infatti “l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge”
Quindi la competenza nel proprio lavoro come fonte di felicità, di dignità, di libertà. “[…] il termine «libertà» ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo.”
Non sono nuove queste idee in Primo Levi, già in “Se questo è un uomo” ricordo come lui sottolinei il fatto che lavorare come chimico gli salvò la vita, non solo perché in virtù di queste sue competenze poté svolgere un lavoro di concetto che faceva comodo ai tedeschi, ma proprio perché dedicarsi a questa attività gli restituì la dignità che il campo di concentramento gli aveva strappato. Chiaro quindi il suo percorso e le sue idee su questo tema.
Quanto condivido questa posizione non sono in grado di dirlo, certo che si tratta di riflessioni di una certa rilevanza e di un certo spessore, che non credo possano essere liquidate come “anacronistiche”, al contrario penso che oggi più che mai possano essere uno strumento utile, una chiave a stella, per aiutarci a ritrovare un po’ il senso di quello che il lavoro rappresenta per noi come individui e nella società, un senso perso in mille rivoli di idee, ideologie, ideuzze, angosce e fatiche.