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LA CITTÀ DEGLI INCROCI
Omar Sharif/Ibrahim e Pierre Boulanger/Mosè nel film di François Dupeyron, 2004.
Parigi, anni ’50. Mosè è un bambino ebreo abbandonato dalla madre alla nascita, che vive con il padre incapace di dimostrargli affetto, sempre preso dai suoi libri e dai ricordi dell’altro figlio. L’economia domestica è magra, e Mosè si arrangia come può, qualche piccolo furto, anche nella drogheria d’angolo, bottega proprietà di un arabo, il Monsieur Ibrahim del titolo, aperta tutti i giorni dalle 8 del mattino a mezzanotte.
Monsieur Ibrahim è l’unico arabo in una via abitata da ebrei, tra Rue Bleue e Rue de Paradis. Tra l’anziano e il ragazzo nasce un’amicizia, nonostante i furtarelli che l’arabo lascia passare: il giovane non sorride mai, il vecchio invece sorride sempre, parla poco ma usa parole giuste. Mosè viene ribattezzato Momo perché è meno impegnativo.
Quando Mosè-Momo è lasciato anche dal padre, Monsieur Ibrahim lo accoglie, li apre la casa e la sua religione, il Corano del titolo, cultura d’accoglienza.
In estate i due partono per un viaggio, diretti in Turchia, terra d’origine di Monsieur Ibrahim. È un viaggio nello spazio, da Parigi al Medio Oriente, e nel tempo perché Mosè-Momo, in compagnia di Monsieur Ibrahim, compie una crescita, un percorso interiore ed esistenziale.
Mosè scopre che gli adulti non sono tutti come suo padre, e scopre di non essere perfetto come il fratello maggiore tanto rimpianto dal padre, ma di essere comunque una persona di valore.
Mosè scopre anche che è il sorridere che rende felici, che se si vuole imparare qualcosa, non si legge un libro, si parla con qualcuno, che la bellezza è dappertutto, che quello che tu dai, Momo, è tuo per tutta la vita; e quello che non dai è perduto per sempre!
Monsieur Ibrahim incarna il padre che Mosè avrebbe voluto e il maestro. L’anziano non tornerà indietro dal viaggio, il giovane rientrerà a Parigi per gestire la bottega aperta ogni giorno dalle 8 a mezzanotte.
Raccontata col tono di una parabola, è una storia di culture e religione che si incontrano, di convivenza pacifica in tempi di convivenze difficili e violente. Schmitt esagera con miele melassa e ambrosia, usa un po’ troppe massime, tira via qualche passaggio: ecco perché mi sono fermato a tre stelle.
A me Schmitt piace a teatro (“Le visiteur”, “Piccoli crimini coniugali”) e mi piace quando parla, racconta i suoi libri e aneddoti vari, come fa durante le presentazioni.
Non sono un fan dello Schmitt romanziere, che si muove con scaltrezza sul sentiero della favola e dell’apologo, senza sforzarsi troppo di non spiattellare l’intento morale.
Come nell’adattamento cinematografico, preferisco la parte ambientata a Parigi, prima che l’arabo sufi dispieghi tutto il suo misticismo in un costante whishful thinking, peggiorato dall’aspetto on the road (un genere a se stante, non semplice inserirlo a metà trama).
Questa edizione è impreziosita da una postfazione di Goffredo Fofi, con tutti i pregi e le idiosincrasie che ho imparato a riconoscergli: tanta curiosità, tanta apertura improvvisamente limitata dalle sue irremovibili rigidità e chiusure ideologiche, dai suoi odi (qui, un esempio tra gli altri, …la scarsa causa della nouvelle vague, nuova onda cinematografica alla quale siamo invece ancora tutti debitori, e magari se ne facessero ancora di film con quell’acume e quel sentimento), il rimpianto per quello che fu (Parigi era Parigi quando lui la scopriva e imparava ad amarla, ora non esiste più, è solo mito - chissà cosa direbbero gli artisti che Parigi hanno vissuto e reso mitica nei decenni precedenti alla scoperta personale di Fofi?), il messaggio del ‘filosofo di Partinico’ che spunta quando parla di religione, tolleranza, violenza.
E, con tutto questo, l’ho trovata un aiuto alla lettura e alla comprensione del testo: ascolto sempre volentieri quello che Fofi dice e scrive. Con quei suoi sandali, il bastone, l’andatura arrancante, la borsa a tracolla, regala l’impressione di aver attraversato mondi culture paesi, tutti a piedi, imparando, conoscendo.
Omar Sharif/Ibrahim e Pierre Boulanger/Mosè nel film di François Dupeyron, 2004.
Parigi, anni ’50. Mosè è un bambino ebreo abbandonato dalla madre alla nascita, che vive con il padre incapace di dimostrargli affetto, sempre preso dai suoi libri e dai ricordi dell’altro figlio. L’economia domestica è magra, e Mosè si arrangia come può, qualche piccolo furto, anche nella drogheria d’angolo, bottega proprietà di un arabo, il Monsieur Ibrahim del titolo, aperta tutti i giorni dalle 8 del mattino a mezzanotte.
Monsieur Ibrahim è l’unico arabo in una via abitata da ebrei, tra Rue Bleue e Rue de Paradis. Tra l’anziano e il ragazzo nasce un’amicizia, nonostante i furtarelli che l’arabo lascia passare: il giovane non sorride mai, il vecchio invece sorride sempre, parla poco ma usa parole giuste. Mosè viene ribattezzato Momo perché è meno impegnativo.
Quando Mosè-Momo è lasciato anche dal padre, Monsieur Ibrahim lo accoglie, li apre la casa e la sua religione, il Corano del titolo, cultura d’accoglienza.
In estate i due partono per un viaggio, diretti in Turchia, terra d’origine di Monsieur Ibrahim. È un viaggio nello spazio, da Parigi al Medio Oriente, e nel tempo perché Mosè-Momo, in compagnia di Monsieur Ibrahim, compie una crescita, un percorso interiore ed esistenziale.
Mosè scopre che gli adulti non sono tutti come suo padre, e scopre di non essere perfetto come il fratello maggiore tanto rimpianto dal padre, ma di essere comunque una persona di valore.
Mosè scopre anche che è il sorridere che rende felici, che se si vuole imparare qualcosa, non si legge un libro, si parla con qualcuno, che la bellezza è dappertutto, che quello che tu dai, Momo, è tuo per tutta la vita; e quello che non dai è perduto per sempre!
Monsieur Ibrahim incarna il padre che Mosè avrebbe voluto e il maestro. L’anziano non tornerà indietro dal viaggio, il giovane rientrerà a Parigi per gestire la bottega aperta ogni giorno dalle 8 a mezzanotte.
Raccontata col tono di una parabola, è una storia di culture e religione che si incontrano, di convivenza pacifica in tempi di convivenze difficili e violente. Schmitt esagera con miele melassa e ambrosia, usa un po’ troppe massime, tira via qualche passaggio: ecco perché mi sono fermato a tre stelle.
A me Schmitt piace a teatro (“Le visiteur”, “Piccoli crimini coniugali”) e mi piace quando parla, racconta i suoi libri e aneddoti vari, come fa durante le presentazioni.
Non sono un fan dello Schmitt romanziere, che si muove con scaltrezza sul sentiero della favola e dell’apologo, senza sforzarsi troppo di non spiattellare l’intento morale.
Come nell’adattamento cinematografico, preferisco la parte ambientata a Parigi, prima che l’arabo sufi dispieghi tutto il suo misticismo in un costante whishful thinking, peggiorato dall’aspetto on the road (un genere a se stante, non semplice inserirlo a metà trama).
Questa edizione è impreziosita da una postfazione di Goffredo Fofi, con tutti i pregi e le idiosincrasie che ho imparato a riconoscergli: tanta curiosità, tanta apertura improvvisamente limitata dalle sue irremovibili rigidità e chiusure ideologiche, dai suoi odi (qui, un esempio tra gli altri, …la scarsa causa della nouvelle vague, nuova onda cinematografica alla quale siamo invece ancora tutti debitori, e magari se ne facessero ancora di film con quell’acume e quel sentimento), il rimpianto per quello che fu (Parigi era Parigi quando lui la scopriva e imparava ad amarla, ora non esiste più, è solo mito - chissà cosa direbbero gli artisti che Parigi hanno vissuto e reso mitica nei decenni precedenti alla scoperta personale di Fofi?), il messaggio del ‘filosofo di Partinico’ che spunta quando parla di religione, tolleranza, violenza.
E, con tutto questo, l’ho trovata un aiuto alla lettura e alla comprensione del testo: ascolto sempre volentieri quello che Fofi dice e scrive. Con quei suoi sandali, il bastone, l’andatura arrancante, la borsa a tracolla, regala l’impressione di aver attraversato mondi culture paesi, tutti a piedi, imparando, conoscendo.