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I miei problemi con questo romanzo sono dovuti principalmente a due aspetti: il ritmo e il messaggio della narrazione.
Dal punto di vista del ritmo, il libro è esasperante. Tutto avviene con una lentezza insopportabile, tramite lunghi capitoli che si trascinano narrando inezie di scarso o nessun interesse per il lettore (o perlomeno, per questa lettrice). Da amante delle saghe familiari, tendo generalmente ad apprezzare le opere corali raccontate dal punto di vista di più personaggi; in questo caso, però, ho trovato molti dei protagonisti piatti e stereotipati, per non dire francamente insopportabili. Anche il ricorso al realismo magico è minimale e debolissimo, niente a che vedere con l’opera di autori come Gabriel García Márquez o Jorge Luis Borges.
L’aspetto davvero problematico del libro, però, risiede nei messaggi sociali e politici che esso veicola più o meno esplicitamente.
Nelle intenzioni dell’autrice, questa vorrebbe essere un’epopea sulla storia moderna del Cile, scritta con l’intento di denunciare le violenze compiute dalla classe dirigente contro i lavoratori dei campi e gli attivisti di sinistra; violenze culminate, come sappiamo, nel golpe di Pinochet del 1973.
Allende parte quindi con le migliori intenzioni, ma la sua posizione di donna altoborghese e la sua mancanza di empatia verso le classi lavoratrici compromettono la riuscita del suo progetto. Il risultato è che il romanzo finisce per glissare sui continui, crudeli soprusi subiti dai contadini poveri e indigeni per mano dei coloni bianchi e ricchi. Il doppio standard della voce narrante si fa sentire fin da subito, quando minimizza gli stupri compiuti dal protagonista sulle contadine (dodicenni!), i maltrattamenti verso i suoi dipendenti e lo sfruttamento sistematico delle terre strappate ai nativi. L’autrice è inspiegabilmente determinata a rendere Esteban Trueba simpatetico agli occhi del lettore, tanto da assegnare a lui solo il privilegio di raccontare la propria storia in prima persona. Nonostante egli sia, a tutti gli effetti, il vero antagonista della vicenda, Allende si sforza di farci comprendere le sue ragioni, sentire il suo dolore, e, infine, accettare la sua redenzione perché ha compiuto una buona azione prima di morire.
Personalmente sono davvero stanca di leggere romanzi storici in cui fascisti della peggior specie, che hanno contribuito (almeno nel contesto narrativo) ad instaurare una dittatura sanguinaria, vengono presentati come personaggi positivi. Trovo assurdo che, in un’opera che si propone di condannare l’oppressione delle classi più povere, si trascurino continuamente le sofferenze di queste ultime per soffermarsi solo sui problemi dei ricchi: la morte dei contadini viene liquidata in due righe, quella dei membri della famiglia Trueba è tragica; lo stupro delle donne indigene è normalizzato, quello di Alba — per mano di un indigeno, ovviamente — descritto come mostruoso e traumatico.
In conclusione, non ho assolutamente apprezzato lo sguardo colonialista e il tentativo di redimere gli oppressori compiuto da questo libro. Spero che, col tempo, Allende abbia sviluppato una prospettiva diversa e meno miope.
Dal punto di vista del ritmo, il libro è esasperante. Tutto avviene con una lentezza insopportabile, tramite lunghi capitoli che si trascinano narrando inezie di scarso o nessun interesse per il lettore (o perlomeno, per questa lettrice). Da amante delle saghe familiari, tendo generalmente ad apprezzare le opere corali raccontate dal punto di vista di più personaggi; in questo caso, però, ho trovato molti dei protagonisti piatti e stereotipati, per non dire francamente insopportabili. Anche il ricorso al realismo magico è minimale e debolissimo, niente a che vedere con l’opera di autori come Gabriel García Márquez o Jorge Luis Borges.
L’aspetto davvero problematico del libro, però, risiede nei messaggi sociali e politici che esso veicola più o meno esplicitamente.
Nelle intenzioni dell’autrice, questa vorrebbe essere un’epopea sulla storia moderna del Cile, scritta con l’intento di denunciare le violenze compiute dalla classe dirigente contro i lavoratori dei campi e gli attivisti di sinistra; violenze culminate, come sappiamo, nel golpe di Pinochet del 1973.
Allende parte quindi con le migliori intenzioni, ma la sua posizione di donna altoborghese e la sua mancanza di empatia verso le classi lavoratrici compromettono la riuscita del suo progetto. Il risultato è che il romanzo finisce per glissare sui continui, crudeli soprusi subiti dai contadini poveri e indigeni per mano dei coloni bianchi e ricchi. Il doppio standard della voce narrante si fa sentire fin da subito, quando minimizza gli stupri compiuti dal protagonista sulle contadine (dodicenni!), i maltrattamenti verso i suoi dipendenti e lo sfruttamento sistematico delle terre strappate ai nativi. L’autrice è inspiegabilmente determinata a rendere Esteban Trueba simpatetico agli occhi del lettore, tanto da assegnare a lui solo il privilegio di raccontare la propria storia in prima persona. Nonostante egli sia, a tutti gli effetti, il vero antagonista della vicenda, Allende si sforza di farci comprendere le sue ragioni, sentire il suo dolore, e, infine, accettare la sua redenzione perché ha compiuto una buona azione prima di morire.
Personalmente sono davvero stanca di leggere romanzi storici in cui fascisti della peggior specie, che hanno contribuito (almeno nel contesto narrativo) ad instaurare una dittatura sanguinaria, vengono presentati come personaggi positivi. Trovo assurdo che, in un’opera che si propone di condannare l’oppressione delle classi più povere, si trascurino continuamente le sofferenze di queste ultime per soffermarsi solo sui problemi dei ricchi: la morte dei contadini viene liquidata in due righe, quella dei membri della famiglia Trueba è tragica; lo stupro delle donne indigene è normalizzato, quello di Alba — per mano di un indigeno, ovviamente — descritto come mostruoso e traumatico.
In conclusione, non ho assolutamente apprezzato lo sguardo colonialista e il tentativo di redimere gli oppressori compiuto da questo libro. Spero che, col tempo, Allende abbia sviluppato una prospettiva diversa e meno miope.