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“Dick cercò di rilassarsi: la lotta sarebbe presto incominciata a casa e avrebbe forse dovuto vegliare a lungo ricomponendo l’universo per lei.”
È stato molte volte detto - e scritto certo in tutte le lingue - che l’amore dovrebbe essere una fusione tra due persone, una fusione fisica e mentale e spirituale che faccia di due esseri un essere solo.
“Tender is the night” viene a raccontarci quel che accade quando questo obiettivo è raggiunto, e le conclusioni che se ne traggono non sono felici neanche un po’. Non dico tragiche, perché c’è così poca tragedia nella vita di tutti i giorni che al massimo chiamiamo tragico il tragicomico. Conclusioni che lasciano l’amaro in bocca, piuttosto, e un senso diffuso di disagio e in un certo modo anche una diversa consapevolezza.
Io non sono mai stata davvero innamorata e quindi per me è difficile parlare di un libro come questo e capirlo in tutte le sue sfumature di sentimento. E se le considerazioni che faccio sembreranno un po’ ciniche e un po’ banali, vi chiedo scusa.
“Tender is the night” è un romanzo che sviluppa una pluralità di livelli di lettura. Possiamo leggerlo come un’analisi sociale e materiale di un certo periodo storico, l’indagine critica di una società di villeggianti spensierati e spiagge e soldi spesi con incoscienza, notti profumate e calici di champagne, il tutto avvolto da una cappa di decadenza e di struggimento, di segreti e convenzionalità. Possiamo leggerlo come la storia di un matrimonio senza lieto fine. Possiamo leggerlo come la fine di un matrimonio – dell’unione di due spiriti in uno – e una progressiva disgregazione, un trampolino di lancio verso una rinnovata individualità. Possiamo leggerlo come una presa di coscienza, un’emancipazione femminile. Possiamo leggerlo come il racconto di un’anima comprata e pervertita dal lusso. Ma se non riusciamo a leggere questi livelli tutti assieme, non riusciremo ad avere un disegno completo, non riusciremo compitamente a definirlo. E difatti “Tenera è la notte” sgambetta via da ogni tentativo di definizione.
Il livello che maggiormente ha attirato la mia attenzione è quello del rapporto tra Dick e Nicole, marito e moglie, lui bravo psichiatra di media estrazione, lei ricca paziente malata di schizofrenia, ora tornata a una vita “normale”. Seguiamo la loro storia tappa per tappa, dal tenero innamoramento in una clinica svizzera – e l’innamoramento è l’unica cosa davvero tenera che questo romanzo ci prometta – a una vita matrimoniale di alti e bassi, grandi slanci affettivi e improvvise ricadute, fino all’interruzione finale.
Nel loro stare insieme, fin dalle prime battute, Dick e Nicole commettono molti passi falsi. Una statuina di porcellana e il suo guardiano non potrebbero mai essere troppo felici assieme. Ed ecco Dick che vigila la sua statuina, badando bene che non caschi dalla mensola, e quando cade è lì tutto pronto a raccoglierla e a rimettere insieme i cocci con l’attacca-tutto, fiducioso che potrà incollarla per sempre e che il risultato finale non ne verrà mai pregiudicato. Ma anche stanco, a un certo punto, e sfiduciato che un padrone degenerato abbia posto quella statua su una mensola inclinata. Nicole è la statuina vezzosa, tutta contenta di essere protetta e raccolta dalle mani forti di Dick: si agghinda, si pavoneggia, si fida di lui, confida in lui ed è sempre certa che sarà lì per raccoglierla. Ma è una statuina, per l’appunto: non può pensare che i pensieri che Dick le presta, non brilla di luce propria se non è guardata, sarebbe incapace di badare a se stessa. Finge, talvolta, che ci riuscirebbe, ma ha troppe crepe per non cedere di nuovo.
Nel rapporto tra Dick e Nicole c’è tanto poco scambio quanto ce n’è tra il domestico e il suo pezzo di porcellana. Ma Dick e Nicole sono persone, e il loro rapporto non può restare così per sempre. Ed è così che certi ladri di sentimenti si intrufolano e forzano le serrature e infilano i grimaldelli un po’ qui e un po’ lì, cercando di separarli. Dick non riesce a reggere la parte dell’infermiera e si avvia verso un cammino di abbruttimento. Nicole, da parte sua, non ce la fa a restare una bambola, e cerca un suo cammino, cerca pensieri che siano suoi e sentimenti che siano suoi e si emancipa, si individua, guarisce. Più Nicole guarisce, più Dick si profonda, e sempre meno si immergono l’uno nell’altra. Quando riemergono, sono due persone separate, due persone prive di comunicazione. È la fine dell’uno e l’inizio dell’altra.
C’è una certa tristezza nel pensiero che tanto amore faccia male. Non si dovrebbe amare così: Nicole dovrebbe essere solo Nicole e Dick solo Dick e io solo io. Ogni tentativo di sovrapposizione è una perdita e una corruzione. E la profonda tristezza sta forse in questo, che l’amore ci promette un’identificazione a tempo indefinito, ci spinge a soffrire delle sofferenze dell’altro, ad amare quello che egli ama, e alla fine torna a dirci che era tutto uno scherzo: ma cosa fai? Ci hai creduto? Ma non lo sai che ti rovina la salute? E allora che dovremmo fare, non amare? O amare in modo diverso, amare in modo superficiale? Ecco, questo è il mio amore, quello è il tuo, teniamoli disgiunti e poi restituiamoceli quando ce ne siamo stancati.
Scott mise molto di sé e di sua moglie Zelda e dei piccoli avvenimenti di tutti i giorni in questo romanzo. Non tragici, come dicevo, ma tragicomici, per farci subodorare quel tanto di squallido e di farsesco hanno le nostre esistenze. Di Scott e di Zelda io so poco, quasi niente, se non qualche accenno crudele dalla penna di Hemingway. Mi aspettavo maggiore crudeltà in questo romanzo, più frecce scoccate, più ferite mortali, ma in fondo perché tradire la realtà per il romanzo? Nella realtà veniamo feriti per così piccole cose che quando le allestiamo per un romanzo paiono buffe e marginali. Ma così è la realtà. E noi non vorremo mica dipingere un mondo che non esiste?
Esista e non esista, il mondo dipinto da Scott è incantevole. Incantevole, generosa, gentile, evocativa la sua penna, poche parole, pochi tratti e tutto un disegno nella mente del lettore. Una grande abilità narrativa che la traduzione italiana a tratti imbruttisce e a tratti impreziosisce, ma senza che il lettore si senta davvero tradito.
Potrei dire molto altro, ma sarei di troppo. Concedete fiducia, pazienza, coccolate questo romanzo fino a farlo diventare una cosina indifesa e malleabile, e ne vedrete grandi cose. Grandi balsami versati sulle vostre piccole ferite, grandi come capocchie di spillo, e forse qualche insegnamento da trattenere.
È stato molte volte detto - e scritto certo in tutte le lingue - che l’amore dovrebbe essere una fusione tra due persone, una fusione fisica e mentale e spirituale che faccia di due esseri un essere solo.
“Tender is the night” viene a raccontarci quel che accade quando questo obiettivo è raggiunto, e le conclusioni che se ne traggono non sono felici neanche un po’. Non dico tragiche, perché c’è così poca tragedia nella vita di tutti i giorni che al massimo chiamiamo tragico il tragicomico. Conclusioni che lasciano l’amaro in bocca, piuttosto, e un senso diffuso di disagio e in un certo modo anche una diversa consapevolezza.
Io non sono mai stata davvero innamorata e quindi per me è difficile parlare di un libro come questo e capirlo in tutte le sue sfumature di sentimento. E se le considerazioni che faccio sembreranno un po’ ciniche e un po’ banali, vi chiedo scusa.
“Tender is the night” è un romanzo che sviluppa una pluralità di livelli di lettura. Possiamo leggerlo come un’analisi sociale e materiale di un certo periodo storico, l’indagine critica di una società di villeggianti spensierati e spiagge e soldi spesi con incoscienza, notti profumate e calici di champagne, il tutto avvolto da una cappa di decadenza e di struggimento, di segreti e convenzionalità. Possiamo leggerlo come la storia di un matrimonio senza lieto fine. Possiamo leggerlo come la fine di un matrimonio – dell’unione di due spiriti in uno – e una progressiva disgregazione, un trampolino di lancio verso una rinnovata individualità. Possiamo leggerlo come una presa di coscienza, un’emancipazione femminile. Possiamo leggerlo come il racconto di un’anima comprata e pervertita dal lusso. Ma se non riusciamo a leggere questi livelli tutti assieme, non riusciremo ad avere un disegno completo, non riusciremo compitamente a definirlo. E difatti “Tenera è la notte” sgambetta via da ogni tentativo di definizione.
Il livello che maggiormente ha attirato la mia attenzione è quello del rapporto tra Dick e Nicole, marito e moglie, lui bravo psichiatra di media estrazione, lei ricca paziente malata di schizofrenia, ora tornata a una vita “normale”. Seguiamo la loro storia tappa per tappa, dal tenero innamoramento in una clinica svizzera – e l’innamoramento è l’unica cosa davvero tenera che questo romanzo ci prometta – a una vita matrimoniale di alti e bassi, grandi slanci affettivi e improvvise ricadute, fino all’interruzione finale.
Nel loro stare insieme, fin dalle prime battute, Dick e Nicole commettono molti passi falsi. Una statuina di porcellana e il suo guardiano non potrebbero mai essere troppo felici assieme. Ed ecco Dick che vigila la sua statuina, badando bene che non caschi dalla mensola, e quando cade è lì tutto pronto a raccoglierla e a rimettere insieme i cocci con l’attacca-tutto, fiducioso che potrà incollarla per sempre e che il risultato finale non ne verrà mai pregiudicato. Ma anche stanco, a un certo punto, e sfiduciato che un padrone degenerato abbia posto quella statua su una mensola inclinata. Nicole è la statuina vezzosa, tutta contenta di essere protetta e raccolta dalle mani forti di Dick: si agghinda, si pavoneggia, si fida di lui, confida in lui ed è sempre certa che sarà lì per raccoglierla. Ma è una statuina, per l’appunto: non può pensare che i pensieri che Dick le presta, non brilla di luce propria se non è guardata, sarebbe incapace di badare a se stessa. Finge, talvolta, che ci riuscirebbe, ma ha troppe crepe per non cedere di nuovo.
Nel rapporto tra Dick e Nicole c’è tanto poco scambio quanto ce n’è tra il domestico e il suo pezzo di porcellana. Ma Dick e Nicole sono persone, e il loro rapporto non può restare così per sempre. Ed è così che certi ladri di sentimenti si intrufolano e forzano le serrature e infilano i grimaldelli un po’ qui e un po’ lì, cercando di separarli. Dick non riesce a reggere la parte dell’infermiera e si avvia verso un cammino di abbruttimento. Nicole, da parte sua, non ce la fa a restare una bambola, e cerca un suo cammino, cerca pensieri che siano suoi e sentimenti che siano suoi e si emancipa, si individua, guarisce. Più Nicole guarisce, più Dick si profonda, e sempre meno si immergono l’uno nell’altra. Quando riemergono, sono due persone separate, due persone prive di comunicazione. È la fine dell’uno e l’inizio dell’altra.
C’è una certa tristezza nel pensiero che tanto amore faccia male. Non si dovrebbe amare così: Nicole dovrebbe essere solo Nicole e Dick solo Dick e io solo io. Ogni tentativo di sovrapposizione è una perdita e una corruzione. E la profonda tristezza sta forse in questo, che l’amore ci promette un’identificazione a tempo indefinito, ci spinge a soffrire delle sofferenze dell’altro, ad amare quello che egli ama, e alla fine torna a dirci che era tutto uno scherzo: ma cosa fai? Ci hai creduto? Ma non lo sai che ti rovina la salute? E allora che dovremmo fare, non amare? O amare in modo diverso, amare in modo superficiale? Ecco, questo è il mio amore, quello è il tuo, teniamoli disgiunti e poi restituiamoceli quando ce ne siamo stancati.
Scott mise molto di sé e di sua moglie Zelda e dei piccoli avvenimenti di tutti i giorni in questo romanzo. Non tragici, come dicevo, ma tragicomici, per farci subodorare quel tanto di squallido e di farsesco hanno le nostre esistenze. Di Scott e di Zelda io so poco, quasi niente, se non qualche accenno crudele dalla penna di Hemingway. Mi aspettavo maggiore crudeltà in questo romanzo, più frecce scoccate, più ferite mortali, ma in fondo perché tradire la realtà per il romanzo? Nella realtà veniamo feriti per così piccole cose che quando le allestiamo per un romanzo paiono buffe e marginali. Ma così è la realtà. E noi non vorremo mica dipingere un mondo che non esiste?
Esista e non esista, il mondo dipinto da Scott è incantevole. Incantevole, generosa, gentile, evocativa la sua penna, poche parole, pochi tratti e tutto un disegno nella mente del lettore. Una grande abilità narrativa che la traduzione italiana a tratti imbruttisce e a tratti impreziosisce, ma senza che il lettore si senta davvero tradito.
Potrei dire molto altro, ma sarei di troppo. Concedete fiducia, pazienza, coccolate questo romanzo fino a farlo diventare una cosina indifesa e malleabile, e ne vedrete grandi cose. Grandi balsami versati sulle vostre piccole ferite, grandi come capocchie di spillo, e forse qualche insegnamento da trattenere.