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IO ACCUSO COLORO CHE HANNO DATO VITA A QUESTO TEMPO
Li accuso di aver profanato la mia vita proprio come un ratto o uno scarafaggio profana il cibo senza neppure mangiarlo, semplicemente camminandoci sopra, annusandolo, insozzandolo.
Un libro straziante composto da un artista che allo strazio non concede campo, che usa scrittura asciutta e limata, finanche all’eccesso, adotta un tono saldo, presenta personaggi non facili da amare, gente che è come il ferro del titolo, dura rigida cruda non simpatica, ma umana così tanto umana.
Gente che si sa spogliare.
Un diario sotto forma di lettera, una lunga lettera della madre malata terminale alla figlia che se ne è andata lontano, ha lasciato il paese tanti anni prima per trasferirsi dall’altra parte di un oceano, sposarsi, avere figli, mettere famiglia, e nuove radici.
Una lettera per cercare di annullare la distanza.
La storia dell’anima di Elizabeth Curren (impossibile non andare con la mente a Elizabeth Costello).
Un’anima che è come un museo.
Un museo dove le etichette sono andate perdute.
La figlia non parla, non ha voce, la madre fa il lavoro per entrambe: parla della vita, del mondo, dell’essere mamma, del Sudafrica, magnifico tormentato paese col nome più insulso che si potesse scegliere (pensare che tutto intorno ai suoi confini è un fiorire di nazioni dai nomi magici ed evocativi).
Un vagabondo che appare all’inizio del romanzo, Vercueil, funziona come l’ospite nel ‘Teorema’ di Pasolini: apre gli occhi alla protagonista, è l’inizio della presa di coscienza, attiva il racconto.
Vercueil puzza d’alcol e di sporco, e non parla mai a sproposito. E’ un angelo, un messaggero, un catalizzatore…?
Incontrandolo, Elizabeth trova energia e scopo: pur se debole e limitata dalla malattia, inizia a intervenire nella realtà che la circonda (con effetti comunque maldestri), si riscatta dalla cieca indifferenza che l’ha anestetizzata per tutta la vita più dei farmaci che è costretta a prendere per sopire il dolore del cancro e tenere lontana la morte.
Il cancro della donna è la metafora del cancro del paese, della sua violenza?
La fuga della figlia negli Stati Uniti è la metafora della lontananza che la donna per tutta la vita ha mantenuto dalla realtà della sua terra?
La debolezza di Elizabeth malata rispecchia la debolezza di coscienza di Elizabeth cittadina del Sudafrica?
La vergogna che il suo corpo malato le genera è l’allegoria della vergogna dei bianchi razzisti?
Si potrebbe continuare a elencare rimandi e analogie, a sviscerare la stratificazione di questa narrazione: e sempre, alla fine, rimarrebbe questo gran bel romanzo, duro e scarnificato come è tradizione del miglior Coetzee.
Li accuso di aver profanato la mia vita proprio come un ratto o uno scarafaggio profana il cibo senza neppure mangiarlo, semplicemente camminandoci sopra, annusandolo, insozzandolo.
Un libro straziante composto da un artista che allo strazio non concede campo, che usa scrittura asciutta e limata, finanche all’eccesso, adotta un tono saldo, presenta personaggi non facili da amare, gente che è come il ferro del titolo, dura rigida cruda non simpatica, ma umana così tanto umana.
Gente che si sa spogliare.
Un diario sotto forma di lettera, una lunga lettera della madre malata terminale alla figlia che se ne è andata lontano, ha lasciato il paese tanti anni prima per trasferirsi dall’altra parte di un oceano, sposarsi, avere figli, mettere famiglia, e nuove radici.
Una lettera per cercare di annullare la distanza.
La storia dell’anima di Elizabeth Curren (impossibile non andare con la mente a Elizabeth Costello).
Un’anima che è come un museo.
Un museo dove le etichette sono andate perdute.
La figlia non parla, non ha voce, la madre fa il lavoro per entrambe: parla della vita, del mondo, dell’essere mamma, del Sudafrica, magnifico tormentato paese col nome più insulso che si potesse scegliere (pensare che tutto intorno ai suoi confini è un fiorire di nazioni dai nomi magici ed evocativi).
Un vagabondo che appare all’inizio del romanzo, Vercueil, funziona come l’ospite nel ‘Teorema’ di Pasolini: apre gli occhi alla protagonista, è l’inizio della presa di coscienza, attiva il racconto.
Vercueil puzza d’alcol e di sporco, e non parla mai a sproposito. E’ un angelo, un messaggero, un catalizzatore…?
Incontrandolo, Elizabeth trova energia e scopo: pur se debole e limitata dalla malattia, inizia a intervenire nella realtà che la circonda (con effetti comunque maldestri), si riscatta dalla cieca indifferenza che l’ha anestetizzata per tutta la vita più dei farmaci che è costretta a prendere per sopire il dolore del cancro e tenere lontana la morte.
Il cancro della donna è la metafora del cancro del paese, della sua violenza?
La fuga della figlia negli Stati Uniti è la metafora della lontananza che la donna per tutta la vita ha mantenuto dalla realtà della sua terra?
La debolezza di Elizabeth malata rispecchia la debolezza di coscienza di Elizabeth cittadina del Sudafrica?
La vergogna che il suo corpo malato le genera è l’allegoria della vergogna dei bianchi razzisti?
Si potrebbe continuare a elencare rimandi e analogie, a sviscerare la stratificazione di questa narrazione: e sempre, alla fine, rimarrebbe questo gran bel romanzo, duro e scarnificato come è tradizione del miglior Coetzee.