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KAFKA TRA I BOSCIMANI
Accogliendo i barbari.
Qual è compito della letteratura, rassicurarci o metterci paura?
Con questo libro, Coetzee risponde senza dubbio adottando la seconda ipotesi.
Elizabeth Costello, nel romanzo omonimo, si descrive così, come se dovesse pubblicare un annuncio personale:
Divorziata, bianca, altezza 1.70, sessantenne, in corsa verso la morte che le corre incontro allo stesso passo, cerco dio, immortale, in qualunque forma terrestre, per fini per i quali non bastano le parole.
Coetzee è ormai settantenne, credo sia più alto di 1.70, se sia divorziato non saprei, ma immagino di sì.
E, soprattutto, suppongo che quale sia la risposta, lui la conservi nascosta, lontano dai riflettori e dalla curiosità pubblica.
A parte queste differenze, penso, che le parole di Elizabeth Costello descrivano a meraviglia lo stesso Coetzee.
Aspettando i tartari, il deserto dei barbari.
Alla Mostra del Cinema di Venezia 2019 (edizione #76) era in concorso l’adattamento cinematografico di questo magnifico romanzo di Coetzee del 1980, con lo stesso Coetzee unico scrittore impegnato a sceneggiare (errore, secondo me). La regia affidata al talentuosissimo colombiano Ciro Guerra alla sua prima prova fuori dei confini patrii.
Collaboratori al top (per esempio, Chris Menges alla fotografia, il nostro Jacopo Quadri al montaggio…). A me ha dato la sensazione di quelle super band di rocker che mettono in gioco e condividono più mestiere che anima. Nel senso che il risultato filmico ha aspetti belli e interessanti, ma tutto sommato non mi pare vada oltre la sufficienza.
L’errore maggiore è l’eccesso di manicheismo, dichiarato da subito. Appena entra in scena Johnny Depp, che è il colonnello poliziotto mandato a mettere ordine nella situazione di quella zona di confine (situazione che andrebbe benissimo se non fosse proprio il colonnello a attizzare, e scatenare, i presunti barbari che prima del suo arrivo vivevamo in pace senza problemi), si ha da una parte il cattivo dichiarato e sbandierato, il Male, vestito di blu notte, con occhiali da sole anche in interno, verga frustino in mano; e dall’altra il magistrato, vestito di chiaro, con l’espressione angelica di Mark Rylance, che in questa occasione sembra aver seguito corsi di recitazione da Gesù Cristo (tra l’altro, si inginocchia, lava e cura piedi). Esagerato. Si perde la sottigliezza, le sfumature, nel romanzo il magistrato non è così santificato.
C’è anche qualche momento di stanca, di noia, di ritmo lento.
Ma i costumi sono efficaci, le scenografie affascinanti, i paesaggi magnifici: Guerra sceglie di mostrare il Marocco (dintorni di Ouarzazade) come se fosse la Mongolia, il confine cinese. E per accentuare questa scelta trasforma i barbari, che nel romanzo si presumono essere africani, in gente dagli zigomi forti e gli occhi a mandorla. Tartari.
In effetti il capolavoro di Zurlini ritorna in mente e nelle citazioni ogni istante. E alla fine viene voglia di dire: ridatemi Il deserto dei Tartari!
Accogliendo i barbari.
Qual è compito della letteratura, rassicurarci o metterci paura?
Con questo libro, Coetzee risponde senza dubbio adottando la seconda ipotesi.
Elizabeth Costello, nel romanzo omonimo, si descrive così, come se dovesse pubblicare un annuncio personale:
Divorziata, bianca, altezza 1.70, sessantenne, in corsa verso la morte che le corre incontro allo stesso passo, cerco dio, immortale, in qualunque forma terrestre, per fini per i quali non bastano le parole.
Coetzee è ormai settantenne, credo sia più alto di 1.70, se sia divorziato non saprei, ma immagino di sì.
E, soprattutto, suppongo che quale sia la risposta, lui la conservi nascosta, lontano dai riflettori e dalla curiosità pubblica.
A parte queste differenze, penso, che le parole di Elizabeth Costello descrivano a meraviglia lo stesso Coetzee.
Aspettando i tartari, il deserto dei barbari.
Alla Mostra del Cinema di Venezia 2019 (edizione #76) era in concorso l’adattamento cinematografico di questo magnifico romanzo di Coetzee del 1980, con lo stesso Coetzee unico scrittore impegnato a sceneggiare (errore, secondo me). La regia affidata al talentuosissimo colombiano Ciro Guerra alla sua prima prova fuori dei confini patrii.
Collaboratori al top (per esempio, Chris Menges alla fotografia, il nostro Jacopo Quadri al montaggio…). A me ha dato la sensazione di quelle super band di rocker che mettono in gioco e condividono più mestiere che anima. Nel senso che il risultato filmico ha aspetti belli e interessanti, ma tutto sommato non mi pare vada oltre la sufficienza.
L’errore maggiore è l’eccesso di manicheismo, dichiarato da subito. Appena entra in scena Johnny Depp, che è il colonnello poliziotto mandato a mettere ordine nella situazione di quella zona di confine (situazione che andrebbe benissimo se non fosse proprio il colonnello a attizzare, e scatenare, i presunti barbari che prima del suo arrivo vivevamo in pace senza problemi), si ha da una parte il cattivo dichiarato e sbandierato, il Male, vestito di blu notte, con occhiali da sole anche in interno, verga frustino in mano; e dall’altra il magistrato, vestito di chiaro, con l’espressione angelica di Mark Rylance, che in questa occasione sembra aver seguito corsi di recitazione da Gesù Cristo (tra l’altro, si inginocchia, lava e cura piedi). Esagerato. Si perde la sottigliezza, le sfumature, nel romanzo il magistrato non è così santificato.
C’è anche qualche momento di stanca, di noia, di ritmo lento.
Ma i costumi sono efficaci, le scenografie affascinanti, i paesaggi magnifici: Guerra sceglie di mostrare il Marocco (dintorni di Ouarzazade) come se fosse la Mongolia, il confine cinese. E per accentuare questa scelta trasforma i barbari, che nel romanzo si presumono essere africani, in gente dagli zigomi forti e gli occhi a mandorla. Tartari.
In effetti il capolavoro di Zurlini ritorna in mente e nelle citazioni ogni istante. E alla fine viene voglia di dire: ridatemi Il deserto dei Tartari!