...
Show More
L’azione si svolge nella New York degli anni Ottanta, quelli della cosiddetta Reaganomics e dell’edonismo reaganiano: una città in cui convivono, quasi sempre in modo contraddittorio e ostile, etnie, culture, credi religiosi e ceti economico-sociali diversi fra loro. Questa pluralità è ben lontana dal modello del melting pot: le differenze e i conflitti vengono continuamente rinfocolati e si sviluppano al punto di impattare profondamente sulla struttura urbana di New York, trasformando i singoli quartieri (dal Bronx a Manhattan) in altrettanti universi ben distinti e difficilmente comunicanti. In questo contesto, Sherman McCoy è un giovane rampante di Park Avenue che fattura cifre a sei zeri con il suo lavoro di bond trader (in pratica guadagna denaro reale spostando da un capo all’altro del mondo denaro immaginario): è un “padrone dell’universo”, ossia un individuo che in virtù della sua origine WASP e della sua superiorità sociale muove a suo piacere le leve del potere economico da cui discende quello politico. Purtroppo questo potere non lo pone al riparo da spiacevoli avventure: ritornando dall’aeroporto con la sua amante, la sensuale bruna Maria Ruskin (sposata con un anziano finanziere ebreo che ha fatto soldi con i voli charter per i pellegrini diretti ai luoghi santi dell’Islam), McCoy sbaglia strada e si ritrova nella giungla del Bronx, molto diversa da quella alla quale è abituato, ma altrettanto spietata. Per una serie di sfortunate circostanze l’auto investe un giovane nero, che viene ferito gravemente: Sherman e Maria però si danno alla fuga, sperando di evitare di rendere conto dell’incidente. Purtroppo non sarà così: gli interessi in gioco sono tanti e tali che la storia viene rapidamente a galla, segnando per Sherman l’inizio di un terribile calvario giudiziario. Il reverendo Reginald Bacon, attivista nero che non si fa scrupoli a gestire fondi pubblici per speculazioni edilizie, intende usare la vicenda per ricattare politicamente il sindaco, che a sua volta teme di perdere voti se, come sempre accade, il ricco WASP avrà la meglio a spese del povero nero. Il procuratore ebreo Abe Weiss vuole inchiodare alla sbarra il Grande Imputato Bianco e guadagnarsi così i voti dei cittadini neri e ispanici del Bronx necessari alla sua rielezione. Il suo vice, Larry Kramer, istruisce l’accusa nel tentativo di ottenere visibilità, uno stipendio più sostanzioso e soddisfazione ai suoi peggiori istinti di arrampicatore sociale e donnaiolo. Il giornalista inglese Peter Fallow, alcolizzato e squattrinato, vede l’occasione per un rilancio della sua professione nella pubblicazione di articoli scandalistici che deformano la realtà in modo sempre più grottesco. Ben presto appare evidente che a nessuno interessa davvero la verità dei fatti: tutti sono impegnati a contaminarla con menzogne più o meno credibili in vista di un tornaconto personale. Il romanzo si sviluppa così in un labirinto di inganni, ambiguità, bugie, simulazioni, piccoli e grandi tradimenti, fino al primo parziale scioglimento della vicenda, anch’esso basato su una menzogna. Segue un epilogo che svela la sorte successiva dei vari personaggi, aggiungendo poco al succo della vicenda.
L’intento di Wolfe è quello di raccontare con piglio naturalistico il corrottissimo, violento e decadente mondo newyorkese degli anni Ottanta, diviso fra ceti abbienti cafoni, annoiati e volgari e ceti inferiori brutali, aggressivi e dediti alla criminalità: non si capisce infatti se sia più pacchiano e ostentato il Rollio del Pappone dei giovani di colore o la camminata mento in fuori dei laureati di Yale. È un mondo infernale, i cui protagonisti operano sempre e comunque il male, per scelta o per educazione, per caso o per necessità: solidarietà, empatia, amicizia, generosità sono parole sconosciute e tutto si basa sul do ut des (come dimostra la Banca dei Favori che regola il comportamento della comunità irlandese), modulato dall’avidità, dall’ambizione e dalla concupiscenza. Vanitas vanitatum et omnia vanitas, dice l’Ecclesiaste, e a New York il culto tributato agli idoli e ai “padroni dell’universo” esige ogni tanto una vittima sacrificale da bruciare sul savonaroliano falò delle vanità, come valvola di sicurezza per disinnescare l’istinto di rivalsa dei ceti inferiori e perpetuare le sperequazioni economico-sociali.
Balzac e Dickens sono i modelli letterari di Wolfe, oltre ovviamente a Thackeray, che dà lo spunto per il titolo del libro. Elegantissimo fautore della conciliazione fra camicie a righe e cravatte a quadretti, Wolfe è uno dei principali esponenti della corrente giornalistica nota come New journalism, emersa compiutamente negli anni Settanta e caratterizzata dal ricorso ad una narrazione realistica di impianto letterario e agli espedienti narrativi tipici del romanzo (la riorganizzazione degli eventi in una vera e propria trama, le scene di dialogo, la focalizzazione sui vari personaggi, la ricostruzione ambientale). Gli articoli contenuti nel libro e scritti dal personaggio di Peter Fallow sono un chiaro esempio di questo tipo di giornalismo. Tuttavia, per quanto capillare e realistica, l’analisi di Wolfe rimane sempre in superficie: non gli interessa tratteggiare la storia sociale di New York, né individuare le cause dei conflitti socioculturali (tantomeno proporre soluzioni): il suo intento è puramente descrittivo, e Wolfe assomiglia ad un entomologo che mostra agli astanti le creature che è riuscito a catturare nel suo retino, elencandone le bizzarrie con una sorta di sadico compiacimento. Le armi della satira e dell’ironia non vengono spese al servizio di un qualche ideale, ma hanno il semplice scopo di affinare l’analisi facendo emergere le supposte verità nascoste nella commedia degli inganni che si recita a tutti i livelli della scala sociale.
Con presupposti del genere, il rischio di costruire un romanzo che assomigli ad una dettagliatissima fotografia completamente priva di “anima” è elevatissimo. Penso che a differenza di Truman Capote (che pure appartiene alla stessa corrente giornalistica), Wolfe non abbia saputo evitare questo rischio: nel complesso il libro risulta molto faticoso da leggere, poco scorrevole, scarsamente avvincente e a tratti mortalmente noioso. L’immedesimazione con i personaggi è praticamente impossibile dato il loro status caricaturale: per lo stesso motivo l’introspezione psicologica è standardizzata. Lo sviluppo della trama è lentissimo, al limite dell’immobilità: dall’incidente in auto (p. 80) all’incriminazione del protagonista (p. 400) non succede quasi niente di essenziale. I personaggi si incontrano per dialogare e la maggior parte della narrazione si alimenta proprio di questi dialoghi, in cui si parla quasi sempre di soldi, di oggetti costosi (auto, gioielli, abiti), di brand alla moda, di vacanze di lusso, di scuole prestigiose. I dialoghi, artificiosamente dilatati da espedienti retorici (vedi sotto) sono incorniciati da un’aneddotica non particolarmente avvincente e da descrizioni eccessivamente lunghe dell’arredamento pacchiano delle case dei ricchi o del menu gustato dagli ospiti delle feste dell’aristocrazia cittadina. Si salvano poche rappresentazioni di ambiente davvero vivide (ad esempio la sequenza dei casi giudiziari nel cap. 5 o l’odissea di McCoy nella prigione del tribunale nel capitolo “Noccioline di polistirolo”, uno dei migliori del romanzo). In generale il tribunale tende ad essere il luogo in cui l’azione si fa più vitale e interessante, a fronte degli altri ambienti, più stereotipati e statici (le case dei ricchi, gli uffici, le residenze della gente di colore).
I personaggi maschili vengono tratteggiati in modo ripetitivo, secondo uno stile formulare basato su combinazioni scarsamente variabili: Sherman corrisponde alla formula “padrone dell’universo-mento di Yale-Park Avenue-knickerbocker-obbligazioni”, Kramer alla formula “ebreo-irlandese-invidia-rossetto marrone-muscoli sternocleidomastoidei”, Fallow alla formula “britannico-scroccone-alcool-City Light-Topo morto” e così via. I personaggi entrano ed escono dalla scena sempre allo stesso modo, con le stesse battute e con la stessa rudimentale psicologia: sono caricature imbalsamate nel loro ambiente. Ancora peggio i personaggi femminili, dello spessore della carta velina: che siano madri, mogli, amanti, amiche o prostitute (non facilmente distinguibili le une dalle altre) sono oggetti di arredo ed esistono in funzione degli uomini, in una società a fortissima connotazione maschilista e patriarcale.
Intendiamoci, lo stile formulare ha precedenti illustri, ma nasce da esigenze metriche: in un romanzo come questo diventa prima fastidioso, poi insopportabile, inducendo il lettore a pensare che l’autore abbia voluto allungare il brodo. Nel caso di Wolfe, direi che il suo stile è funzionale alla rappresentazione di tipi esemplari: lo yuppie di Wall Street, l’ambizioso procuratore, il giornalista della stampa scandalistica, la moglie noiosa, l’escort di alto bordo etc. Ma con a disposizione soltanto “tipi” del genere un romanzo di 600 pagine non si tiene. Quasi nessun personaggio evolve: l’unico a presentare una qualche maturazione, tardiva eppure efficace, è proprio Sherman nelle ultime 50 pagine del libro, quando la vicenda subisce un’incerta accelerazione. Il nostro "eroe" riesce finalmente a sconfiggere l’unico suo tratto di debolezza, ovvero il suo complesso di inferiorità verso la giungla di New York e, per quanto gli sia andato tutto a rotoli, ora è in grado di affrontare a viso aperto le sue sventure. Significativo il fatto che il rito di passaggio che conduce al "nuovo" Sherman, più macho e aggressivo- vale a dire la prima registrazione ambientale -, sia l'ennesima menzogna delle centinaia sparse in tutta la storia: e in effetti il nostro, inizialmente spinto dalla propria educazione a non mentire ai tutori dell’ordine, comprenderà l’importanza di simulare sempre e comunque. Il personaggio che secondo me è in assoluto il più odioso è Kramer, perché a differenza di quasi tutti gli altri ammanta di nobili ideali quelle che sono le sue ambizioni più immorali: la carriera, la rivalsa contro chi ha più soldi o più potere di lui e infine la concupiscenza nei confronti delle fanciulle appetibili che gli capitano intorno, testimoni, giurate o disegnatrici... come si dice, basta che respirino e siano più carine di sua moglie!
Stilisticamente il romanzo è enfatico e retorico. C’è un abuso disturbante di punti esclamativi, dell’onomatopea e dell’anafora, del corsivo. Ricorrono continuamente espressioni tipo “Un hack-hack-hack-hack di risaaaaateeee”. Particolarmente irritanti sono le ripetizioni di singole parole o singole lettere: un semplice “Mmh!” viene reso con un “Mmmmmmhhh!”; l’espressione “medagliette per negretti” (odiatissima dal sindaco) ricorre ben 6 volte in due soli capoversi (p. 507). Dopo un paio di pagine di questa prosa, un lettore medio comincia a scorrere rapidamente e poi a saltare le righe. L’uso della parolaccia e del linguaggio volgare, indispensabile per ricreare il milieu newyorkese è piuttosto monocorde (vedi le ultime 10 righe di p. 95 per un esempio). Del resto le allusioni sessuali sono limitate e le poche descrizioni dei rapporti sessuali non particolarmente spinte (oggi siamo abituati a ben altro!). Gli inserti giornalistici di Fallow, come si è detto, appartengono al New journalism: assuefatti come siamo ad una prosa giornalistica sincopata e paratattica, non siamo più in grado di apprezzare quella prosa così retorica e articolata. Infine, qualche “licenza poetica” forse il nostro Wolfe se la poteva evitare, ad esempio scegliere il pomo d’Adamo (presente negli individui di sesso femminile, ma generalmente poco visibile) come segnale del disagio di Maria Ruskin (p. 534).
Ringrazio i compagni di lettura di GR Italia per la discussione sui pregi e difetti del libro, alla quale rimando per chi ha maggiore curiosità:
https://www.goodreads.com/topic/show/...
Consigliato a chi ama, nel bene e nel male, la New York degli anni Ottanta.
Sconsigliato a chi odia i romanzi in cui non ci sono personaggi positivi.
L’intento di Wolfe è quello di raccontare con piglio naturalistico il corrottissimo, violento e decadente mondo newyorkese degli anni Ottanta, diviso fra ceti abbienti cafoni, annoiati e volgari e ceti inferiori brutali, aggressivi e dediti alla criminalità: non si capisce infatti se sia più pacchiano e ostentato il Rollio del Pappone dei giovani di colore o la camminata mento in fuori dei laureati di Yale. È un mondo infernale, i cui protagonisti operano sempre e comunque il male, per scelta o per educazione, per caso o per necessità: solidarietà, empatia, amicizia, generosità sono parole sconosciute e tutto si basa sul do ut des (come dimostra la Banca dei Favori che regola il comportamento della comunità irlandese), modulato dall’avidità, dall’ambizione e dalla concupiscenza. Vanitas vanitatum et omnia vanitas, dice l’Ecclesiaste, e a New York il culto tributato agli idoli e ai “padroni dell’universo” esige ogni tanto una vittima sacrificale da bruciare sul savonaroliano falò delle vanità, come valvola di sicurezza per disinnescare l’istinto di rivalsa dei ceti inferiori e perpetuare le sperequazioni economico-sociali.
Balzac e Dickens sono i modelli letterari di Wolfe, oltre ovviamente a Thackeray, che dà lo spunto per il titolo del libro. Elegantissimo fautore della conciliazione fra camicie a righe e cravatte a quadretti, Wolfe è uno dei principali esponenti della corrente giornalistica nota come New journalism, emersa compiutamente negli anni Settanta e caratterizzata dal ricorso ad una narrazione realistica di impianto letterario e agli espedienti narrativi tipici del romanzo (la riorganizzazione degli eventi in una vera e propria trama, le scene di dialogo, la focalizzazione sui vari personaggi, la ricostruzione ambientale). Gli articoli contenuti nel libro e scritti dal personaggio di Peter Fallow sono un chiaro esempio di questo tipo di giornalismo. Tuttavia, per quanto capillare e realistica, l’analisi di Wolfe rimane sempre in superficie: non gli interessa tratteggiare la storia sociale di New York, né individuare le cause dei conflitti socioculturali (tantomeno proporre soluzioni): il suo intento è puramente descrittivo, e Wolfe assomiglia ad un entomologo che mostra agli astanti le creature che è riuscito a catturare nel suo retino, elencandone le bizzarrie con una sorta di sadico compiacimento. Le armi della satira e dell’ironia non vengono spese al servizio di un qualche ideale, ma hanno il semplice scopo di affinare l’analisi facendo emergere le supposte verità nascoste nella commedia degli inganni che si recita a tutti i livelli della scala sociale.
Con presupposti del genere, il rischio di costruire un romanzo che assomigli ad una dettagliatissima fotografia completamente priva di “anima” è elevatissimo. Penso che a differenza di Truman Capote (che pure appartiene alla stessa corrente giornalistica), Wolfe non abbia saputo evitare questo rischio: nel complesso il libro risulta molto faticoso da leggere, poco scorrevole, scarsamente avvincente e a tratti mortalmente noioso. L’immedesimazione con i personaggi è praticamente impossibile dato il loro status caricaturale: per lo stesso motivo l’introspezione psicologica è standardizzata. Lo sviluppo della trama è lentissimo, al limite dell’immobilità: dall’incidente in auto (p. 80) all’incriminazione del protagonista (p. 400) non succede quasi niente di essenziale. I personaggi si incontrano per dialogare e la maggior parte della narrazione si alimenta proprio di questi dialoghi, in cui si parla quasi sempre di soldi, di oggetti costosi (auto, gioielli, abiti), di brand alla moda, di vacanze di lusso, di scuole prestigiose. I dialoghi, artificiosamente dilatati da espedienti retorici (vedi sotto) sono incorniciati da un’aneddotica non particolarmente avvincente e da descrizioni eccessivamente lunghe dell’arredamento pacchiano delle case dei ricchi o del menu gustato dagli ospiti delle feste dell’aristocrazia cittadina. Si salvano poche rappresentazioni di ambiente davvero vivide (ad esempio la sequenza dei casi giudiziari nel cap. 5 o l’odissea di McCoy nella prigione del tribunale nel capitolo “Noccioline di polistirolo”, uno dei migliori del romanzo). In generale il tribunale tende ad essere il luogo in cui l’azione si fa più vitale e interessante, a fronte degli altri ambienti, più stereotipati e statici (le case dei ricchi, gli uffici, le residenze della gente di colore).
I personaggi maschili vengono tratteggiati in modo ripetitivo, secondo uno stile formulare basato su combinazioni scarsamente variabili: Sherman corrisponde alla formula “padrone dell’universo-mento di Yale-Park Avenue-knickerbocker-obbligazioni”, Kramer alla formula “ebreo-irlandese-invidia-rossetto marrone-muscoli sternocleidomastoidei”, Fallow alla formula “britannico-scroccone-alcool-City Light-Topo morto” e così via. I personaggi entrano ed escono dalla scena sempre allo stesso modo, con le stesse battute e con la stessa rudimentale psicologia: sono caricature imbalsamate nel loro ambiente. Ancora peggio i personaggi femminili, dello spessore della carta velina: che siano madri, mogli, amanti, amiche o prostitute (non facilmente distinguibili le une dalle altre) sono oggetti di arredo ed esistono in funzione degli uomini, in una società a fortissima connotazione maschilista e patriarcale.
Intendiamoci, lo stile formulare ha precedenti illustri, ma nasce da esigenze metriche: in un romanzo come questo diventa prima fastidioso, poi insopportabile, inducendo il lettore a pensare che l’autore abbia voluto allungare il brodo. Nel caso di Wolfe, direi che il suo stile è funzionale alla rappresentazione di tipi esemplari: lo yuppie di Wall Street, l’ambizioso procuratore, il giornalista della stampa scandalistica, la moglie noiosa, l’escort di alto bordo etc. Ma con a disposizione soltanto “tipi” del genere un romanzo di 600 pagine non si tiene. Quasi nessun personaggio evolve: l’unico a presentare una qualche maturazione, tardiva eppure efficace, è proprio Sherman nelle ultime 50 pagine del libro, quando la vicenda subisce un’incerta accelerazione. Il nostro "eroe" riesce finalmente a sconfiggere l’unico suo tratto di debolezza, ovvero il suo complesso di inferiorità verso la giungla di New York e, per quanto gli sia andato tutto a rotoli, ora è in grado di affrontare a viso aperto le sue sventure. Significativo il fatto che il rito di passaggio che conduce al "nuovo" Sherman, più macho e aggressivo- vale a dire la prima registrazione ambientale -, sia l'ennesima menzogna delle centinaia sparse in tutta la storia: e in effetti il nostro, inizialmente spinto dalla propria educazione a non mentire ai tutori dell’ordine, comprenderà l’importanza di simulare sempre e comunque. Il personaggio che secondo me è in assoluto il più odioso è Kramer, perché a differenza di quasi tutti gli altri ammanta di nobili ideali quelle che sono le sue ambizioni più immorali: la carriera, la rivalsa contro chi ha più soldi o più potere di lui e infine la concupiscenza nei confronti delle fanciulle appetibili che gli capitano intorno, testimoni, giurate o disegnatrici... come si dice, basta che respirino e siano più carine di sua moglie!
Stilisticamente il romanzo è enfatico e retorico. C’è un abuso disturbante di punti esclamativi, dell’onomatopea e dell’anafora, del corsivo. Ricorrono continuamente espressioni tipo “Un hack-hack-hack-hack di risaaaaateeee”. Particolarmente irritanti sono le ripetizioni di singole parole o singole lettere: un semplice “Mmh!” viene reso con un “Mmmmmmhhh!”; l’espressione “medagliette per negretti” (odiatissima dal sindaco) ricorre ben 6 volte in due soli capoversi (p. 507). Dopo un paio di pagine di questa prosa, un lettore medio comincia a scorrere rapidamente e poi a saltare le righe. L’uso della parolaccia e del linguaggio volgare, indispensabile per ricreare il milieu newyorkese è piuttosto monocorde (vedi le ultime 10 righe di p. 95 per un esempio). Del resto le allusioni sessuali sono limitate e le poche descrizioni dei rapporti sessuali non particolarmente spinte (oggi siamo abituati a ben altro!). Gli inserti giornalistici di Fallow, come si è detto, appartengono al New journalism: assuefatti come siamo ad una prosa giornalistica sincopata e paratattica, non siamo più in grado di apprezzare quella prosa così retorica e articolata. Infine, qualche “licenza poetica” forse il nostro Wolfe se la poteva evitare, ad esempio scegliere il pomo d’Adamo (presente negli individui di sesso femminile, ma generalmente poco visibile) come segnale del disagio di Maria Ruskin (p. 534).
Ringrazio i compagni di lettura di GR Italia per la discussione sui pregi e difetti del libro, alla quale rimando per chi ha maggiore curiosità:
https://www.goodreads.com/topic/show/...
Consigliato a chi ama, nel bene e nel male, la New York degli anni Ottanta.
Sconsigliato a chi odia i romanzi in cui non ci sono personaggi positivi.