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Brevi interviste di uomini schifosi, D.Wallace
W. non vuole essere uno scrittore che tratta il suo lettore da deficiente, con la scusa che la modernità tale lo ha reso.
Non vuole lisciarlo per il pelo offrendogli un brano commerciale, una trama avvincente che lo catturi completamente e gli faccia dimenticare di essere seduto in poltrona; né fare narrativa "di qualità" per descriverci personaggi senz’anima e senza amore, come se stesso peraltro, e che ripete semplicemente all’infinito il concetto. Il nostro non lo fa.
Piuttosto, lui si chiede come mai qualche essere umano “schifoso o meno” possa continuare ancora, in questo mondo, a provare la capacità gioia e carità per cose che non hanno un prezzo.
È questo l’obiettivo del vero scrittore: far crescere queste capacità alla maniera, dico, di Tolstoj, autore che lui cita molto.
La sua scrittura ti mette davanti il povero corpo umano scorticato, senza pelle,carne viva: c’è pietà in Wallace. La sento mentre rido a crepapelle delle grottesche avventure senza speranza, di quel ritratto iperrealistico della condizione umana moderna.
La mancanza d'amore, la corsa al debellamento del dolore fisico e psichico, mero sintomo, è causa di tutto questo squallore umano.
Jack Gladney, in Rumore Bianco di De Lillo, non riesce a trovare la radice del proprio dolore e si rifugia nel tempio del consumismo, proprio per sfuggire alla paura della fine. I personaggi di Wallace ricalcano quelli di De Lillo. Ma questi ha gettato la spugna senza rimpianti, con il pessimismo della ragione. Wallace invece non riesce a liberarsi dalla disperazione della perdita dell'empatia umana e non a caso finisce com’è finito, con il suicidio, per l'impossibilità di accettare lo stato delle cose.
Contrariamente alla scrittura ottocentesca di Tolstoj, al grande romanzo "realistica" che rende familiare ciò che è strano, lui rende di nuovo strano ciò che è ormai ci diventato familiare. "Nella persona depressa"., terrificante è l'indifferenza – indifferenza che ora è auspicata come “sano amore di sé”- della depressa verso l'unica amica "telefonica" che le è rimasta: povera donna terminale, che può ascoltarla tra un conato e l'altro mentre quella, guarda caso, le chiede di risponderle sinceramente se sia anaffettiva o no.
L’arma dell’ironia nelle sue mani non si limita a svelare le sgradevoli realtà dell’ammorbante letteratura contemporanea, in cui l’ironia è diventata fine a se stessa ( vedi l’ultimo Roth o il tanto decantato Cosmopolis di De Lillo); piuttosto lui osa parlare dei modi in cui si possa tentare di aggiustare quello che non va. È come se desse voce solo alla parte di lui che ama le cose che scrive, che ama il testo a cui sta lavorando. Che ama quel padre, per quanto schifoso sia, che in punto di morte non si dà pace di avere passato tutta la vita a odiare il figlio senza osare dirlo. Se il corpo non lo avesse abbandonato in quell’istante, forse avrebbe potuto redimersi. Ne prova pietà. W. prende il principio dell'amore, molto sul serio e attraverso i suoi personaggi schifosi ci mostra dove siamo arrivati oltre il quale c’è il baratro.
W. non si sottrae all'imperativo categorico morale come perno della Zoe umana, indipendentemente della sua più o meno perfetta biòs.
W. Non si limita a mostrare. Non si lava le mani di fronte al degrado umano. Cerca una soluzione. Dà al lettore l'opportunità di interloquire con lui, in una specie di "tu con te stesso" socratiano. Per fare questo è consapevole che gli strumenti tolstojani non sono più sufficienti. E allora usa un linguaggio preciso, certosino, che non solo "realizza" la realtà ma ne fa cogliere quella realtà di cui non sospettiamo l'esistenza: la realtà del vuoto a cui non dobbiamo rassegnarci e a cui lui non si è rassegnato.
W. non vuole essere uno scrittore che tratta il suo lettore da deficiente, con la scusa che la modernità tale lo ha reso.
Non vuole lisciarlo per il pelo offrendogli un brano commerciale, una trama avvincente che lo catturi completamente e gli faccia dimenticare di essere seduto in poltrona; né fare narrativa "di qualità" per descriverci personaggi senz’anima e senza amore, come se stesso peraltro, e che ripete semplicemente all’infinito il concetto. Il nostro non lo fa.
Piuttosto, lui si chiede come mai qualche essere umano “schifoso o meno” possa continuare ancora, in questo mondo, a provare la capacità gioia e carità per cose che non hanno un prezzo.
È questo l’obiettivo del vero scrittore: far crescere queste capacità alla maniera, dico, di Tolstoj, autore che lui cita molto.
La sua scrittura ti mette davanti il povero corpo umano scorticato, senza pelle,carne viva: c’è pietà in Wallace. La sento mentre rido a crepapelle delle grottesche avventure senza speranza, di quel ritratto iperrealistico della condizione umana moderna.
La mancanza d'amore, la corsa al debellamento del dolore fisico e psichico, mero sintomo, è causa di tutto questo squallore umano.
Jack Gladney, in Rumore Bianco di De Lillo, non riesce a trovare la radice del proprio dolore e si rifugia nel tempio del consumismo, proprio per sfuggire alla paura della fine. I personaggi di Wallace ricalcano quelli di De Lillo. Ma questi ha gettato la spugna senza rimpianti, con il pessimismo della ragione. Wallace invece non riesce a liberarsi dalla disperazione della perdita dell'empatia umana e non a caso finisce com’è finito, con il suicidio, per l'impossibilità di accettare lo stato delle cose.
Contrariamente alla scrittura ottocentesca di Tolstoj, al grande romanzo "realistica" che rende familiare ciò che è strano, lui rende di nuovo strano ciò che è ormai ci diventato familiare. "Nella persona depressa"., terrificante è l'indifferenza – indifferenza che ora è auspicata come “sano amore di sé”- della depressa verso l'unica amica "telefonica" che le è rimasta: povera donna terminale, che può ascoltarla tra un conato e l'altro mentre quella, guarda caso, le chiede di risponderle sinceramente se sia anaffettiva o no.
L’arma dell’ironia nelle sue mani non si limita a svelare le sgradevoli realtà dell’ammorbante letteratura contemporanea, in cui l’ironia è diventata fine a se stessa ( vedi l’ultimo Roth o il tanto decantato Cosmopolis di De Lillo); piuttosto lui osa parlare dei modi in cui si possa tentare di aggiustare quello che non va. È come se desse voce solo alla parte di lui che ama le cose che scrive, che ama il testo a cui sta lavorando. Che ama quel padre, per quanto schifoso sia, che in punto di morte non si dà pace di avere passato tutta la vita a odiare il figlio senza osare dirlo. Se il corpo non lo avesse abbandonato in quell’istante, forse avrebbe potuto redimersi. Ne prova pietà. W. prende il principio dell'amore, molto sul serio e attraverso i suoi personaggi schifosi ci mostra dove siamo arrivati oltre il quale c’è il baratro.
W. non si sottrae all'imperativo categorico morale come perno della Zoe umana, indipendentemente della sua più o meno perfetta biòs.
W. Non si limita a mostrare. Non si lava le mani di fronte al degrado umano. Cerca una soluzione. Dà al lettore l'opportunità di interloquire con lui, in una specie di "tu con te stesso" socratiano. Per fare questo è consapevole che gli strumenti tolstojani non sono più sufficienti. E allora usa un linguaggio preciso, certosino, che non solo "realizza" la realtà ma ne fa cogliere quella realtà di cui non sospettiamo l'esistenza: la realtà del vuoto a cui non dobbiamo rassegnarci e a cui lui non si è rassegnato.