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Rapida ascesa al potere e rovinosa caduta, nell’America degli anni Trenta, del governatore Willie Talos, un bifolco eletto da bifolchi che appendono le sue gigantografie alle pareti dei bar con sotto la scritta “Il mio verbo è il cuore del Popolo”. Il tutto visto attraverso gli occhi del suo amico e stretto collaboratore Jack Burden, che intreccia la storia del governatore con il racconto della sua vita, della sua personale lotta contro i fantasmi del passato e i problemi del presente.
“Hai un meraviglioso senso dell’umorismo,” disse Anne.
“Dove andiamo?” le chiesi, senza badare al suo commento.
“Sei un saccentone strafottente.”
“Dove andiamo?”
“Non cresci mai, vero?”
“Dove andiamo?”
Vagavamo senza meta, oltrepassando le porte a vento di locali e oyster bar, i chioschi dei giornali e le vecchiette che vendevano fiori. Comprai delle gardenie e le regalai a Anne, poi le dissi: “Ammetto di essere un saccentone strafottente, ma è solo un modo per ammazzare il tempo”.
Non è un brutto romanzo, anzi, ma le mie aspettative erano alte. E’ un romanzo così così, con un inizio fulminante. Le prime cento pagine catturano l’attenzione, poi la lettura prosegue tra alti e bassi. Dialoghi serrati e situazioni descritte bene, ma spesso le riflessioni debordano, i ragionamenti si fanno contorti. Forse il problema è proprio la voce del narratore, Jack Burden, questo saccentone strafottente che a tratti diventa molto verboso, affidandosi a frasi che si ampliano a dismisura. Le similitudini ad effetto si sprecano, anche tre per pagina, tipo: All’interno si sentì una specie di rumore, come la nota profonda di un oboe soffocata da un barile di piume.
Oppure: La stagione somigliava quel giorno alla bella figlia prosperosa di un mezzadro sciancato, una ragazza con i seni debordanti e la vita mozzafiato, le guance rosse, gli occhi luminosi e un filo di sudore alla radice dei capelli color fieno (che da altre parti chiamerebbero biondo platino), ma che appena la guardate sapete già che nel giro di poco sarà solo un mucchio di ossa e cartilagini, con una faccia da strega come un vecchio falcetto arrugginito.
Un romanzo americano, molto americano, pure troppo. Vincitore del Pulitzer nel 1947, candidato a Delusione dell’Anno nel 2020.
“Hai un meraviglioso senso dell’umorismo,” disse Anne.
“Dove andiamo?” le chiesi, senza badare al suo commento.
“Sei un saccentone strafottente.”
“Dove andiamo?”
“Non cresci mai, vero?”
“Dove andiamo?”
Vagavamo senza meta, oltrepassando le porte a vento di locali e oyster bar, i chioschi dei giornali e le vecchiette che vendevano fiori. Comprai delle gardenie e le regalai a Anne, poi le dissi: “Ammetto di essere un saccentone strafottente, ma è solo un modo per ammazzare il tempo”.
Non è un brutto romanzo, anzi, ma le mie aspettative erano alte. E’ un romanzo così così, con un inizio fulminante. Le prime cento pagine catturano l’attenzione, poi la lettura prosegue tra alti e bassi. Dialoghi serrati e situazioni descritte bene, ma spesso le riflessioni debordano, i ragionamenti si fanno contorti. Forse il problema è proprio la voce del narratore, Jack Burden, questo saccentone strafottente che a tratti diventa molto verboso, affidandosi a frasi che si ampliano a dismisura. Le similitudini ad effetto si sprecano, anche tre per pagina, tipo: All’interno si sentì una specie di rumore, come la nota profonda di un oboe soffocata da un barile di piume.
Oppure: La stagione somigliava quel giorno alla bella figlia prosperosa di un mezzadro sciancato, una ragazza con i seni debordanti e la vita mozzafiato, le guance rosse, gli occhi luminosi e un filo di sudore alla radice dei capelli color fieno (che da altre parti chiamerebbero biondo platino), ma che appena la guardate sapete già che nel giro di poco sarà solo un mucchio di ossa e cartilagini, con una faccia da strega come un vecchio falcetto arrugginito.
Un romanzo americano, molto americano, pure troppo. Vincitore del Pulitzer nel 1947, candidato a Delusione dell’Anno nel 2020.