...
Show More
« In questa calamità furono come due pesciolini rossi in una boccia dalla quale fosse stata tolta tutta l’acqua; non riuscivano neanche a nuotare l’uno verso l’altro ».
Non posso dire – ed è bene precisarlo nella prima riga – che questo romanzo si sia fatto leggere con grande simpatia. E non è colpa di Fitzgerald né, tanto meno, della sua penna. La colpa sta, semmai, nell’esser riuscito a comunicare in pieno il suo messaggio: un messaggio di decadenza, di sfacelo morale che lascia il lettore fiaccato e insoddisfatto. Tentiamo di spiegare il perché.
In ‘Belli e dannati’ Fitzgerald racconta l’avventura matrimoniale di Adam Patch, giovane ereditiere e parassita sociale, e di Gloria Gilbert, bellissima e piena di spirito. Attraverso la descrizione del loro primo incontro e dei successivi, dei primi anni di matrimonio, di festini e case in affitto, cause, poi la guerra, e ancora feste, soldi scialacquati, abbruttimento, la penna di Fitzgerald ci conduce dalle vette della felicità possibile all’abisso della possibile infelicità.
E il lettore non avrebbe nessun problema ad accettare tutto ciò – quando mai un lettore si trova a disagio nello spiare l’abisso di un altro? – se non fosse per la sensazione che, tutto sommato, questo abisso assomiglia più a una giusta punizione che a un accanimento del fato. Sì, perché Adam e Gloria sono belli, sono intelligenti, sono ricchi. La loro vita, per giunta coronata dal reciproco amore, non manca di nulla. Di nulla. Eppure questa somma di virtù e di beni si trasforma, in appena una manciata d’anni e qualche ruga in più, in un covo di vizi e di livore. E perché tutto questo? Per il senso dell’assoluta inutilità della propria esistenza. Adam e Gloria sembrano voler dirci che, poiché la vita non ha un senso, poiché cercare un senso è faticoso e non conduce a nulla, allora tanto vale auto-distruggersi, sprofondare nell’alcool, in feste di cui non si ricorda nulla, tradire l’amore che si porta per l’altro. Non c’è un significato? Bene, allora è legittimo buttare tutto all’aria.
Ecco, io questa posizione non posso e non voglio condividerla. E non sono riuscita a capire se Fitzgerald la condividesse, se la sua rappresentazione di Adam e Gloria fosse parziale oppure oggettiva, fredda descrizione di uno sfacelo esecrabile. Non sono in genere una moralista, ma questo libro mi ha fatto scoprire di avere una morale, che si esprime perlopiù nell’assunto: ‘vuoi auto-distruggerti senza un motivo? Fallo pure, ma non aspettarti la mia compassione’.
Ecco, non c’è compassione – o almeno non ce n’è stata da parte mia – nell’osservare Gloria e Adam navigare spensieratamente verso il nulla. Anzi, più di una volta, soffocando un mezzo sbadiglio, li ho incoraggiati a spicciarsi e farla finita.
Tutto questo, voglio ripeterlo ancora una volta, non ha nulla a che fare con Fitzgerald. Il mio problema è con la storia, non con lui. Della sua penna poco si può dire senza scadere nello sviolinamento, tanto i suoi guizzi, le sue pennellate incantano e deliziano il lettore dal palato sensibile. Di lui mi piacciono soprattutto due cose: la capacità di penetrare la psicologia femminile e la dolcezza con cui sa parlare d’amore. Frasi tenere, frasi spezza-cuore, frasi che fanno fremere e spalancare gli occhioni e sorridere di tanta delicatezza. Il problema – ed è questo uno dei tristi messaggi che Fitz sembra voler comunicarci – è che a volte l’amore non basta. Nemmeno l’amore basta, quando siamo determinati ad affrettare il nostro declino. E questo è un peccato, un peccato, un peccato.
So solo, Fitz, che la prossima volta che ci vedremo, tu starai brandendo contro di me Il grande Gatsby. Ti aspetto al varco. Ti aspetto trepidante.
Non posso dire – ed è bene precisarlo nella prima riga – che questo romanzo si sia fatto leggere con grande simpatia. E non è colpa di Fitzgerald né, tanto meno, della sua penna. La colpa sta, semmai, nell’esser riuscito a comunicare in pieno il suo messaggio: un messaggio di decadenza, di sfacelo morale che lascia il lettore fiaccato e insoddisfatto. Tentiamo di spiegare il perché.
In ‘Belli e dannati’ Fitzgerald racconta l’avventura matrimoniale di Adam Patch, giovane ereditiere e parassita sociale, e di Gloria Gilbert, bellissima e piena di spirito. Attraverso la descrizione del loro primo incontro e dei successivi, dei primi anni di matrimonio, di festini e case in affitto, cause, poi la guerra, e ancora feste, soldi scialacquati, abbruttimento, la penna di Fitzgerald ci conduce dalle vette della felicità possibile all’abisso della possibile infelicità.
E il lettore non avrebbe nessun problema ad accettare tutto ciò – quando mai un lettore si trova a disagio nello spiare l’abisso di un altro? – se non fosse per la sensazione che, tutto sommato, questo abisso assomiglia più a una giusta punizione che a un accanimento del fato. Sì, perché Adam e Gloria sono belli, sono intelligenti, sono ricchi. La loro vita, per giunta coronata dal reciproco amore, non manca di nulla. Di nulla. Eppure questa somma di virtù e di beni si trasforma, in appena una manciata d’anni e qualche ruga in più, in un covo di vizi e di livore. E perché tutto questo? Per il senso dell’assoluta inutilità della propria esistenza. Adam e Gloria sembrano voler dirci che, poiché la vita non ha un senso, poiché cercare un senso è faticoso e non conduce a nulla, allora tanto vale auto-distruggersi, sprofondare nell’alcool, in feste di cui non si ricorda nulla, tradire l’amore che si porta per l’altro. Non c’è un significato? Bene, allora è legittimo buttare tutto all’aria.
Ecco, io questa posizione non posso e non voglio condividerla. E non sono riuscita a capire se Fitzgerald la condividesse, se la sua rappresentazione di Adam e Gloria fosse parziale oppure oggettiva, fredda descrizione di uno sfacelo esecrabile. Non sono in genere una moralista, ma questo libro mi ha fatto scoprire di avere una morale, che si esprime perlopiù nell’assunto: ‘vuoi auto-distruggerti senza un motivo? Fallo pure, ma non aspettarti la mia compassione’.
Ecco, non c’è compassione – o almeno non ce n’è stata da parte mia – nell’osservare Gloria e Adam navigare spensieratamente verso il nulla. Anzi, più di una volta, soffocando un mezzo sbadiglio, li ho incoraggiati a spicciarsi e farla finita.
Tutto questo, voglio ripeterlo ancora una volta, non ha nulla a che fare con Fitzgerald. Il mio problema è con la storia, non con lui. Della sua penna poco si può dire senza scadere nello sviolinamento, tanto i suoi guizzi, le sue pennellate incantano e deliziano il lettore dal palato sensibile. Di lui mi piacciono soprattutto due cose: la capacità di penetrare la psicologia femminile e la dolcezza con cui sa parlare d’amore. Frasi tenere, frasi spezza-cuore, frasi che fanno fremere e spalancare gli occhioni e sorridere di tanta delicatezza. Il problema – ed è questo uno dei tristi messaggi che Fitz sembra voler comunicarci – è che a volte l’amore non basta. Nemmeno l’amore basta, quando siamo determinati ad affrettare il nostro declino. E questo è un peccato, un peccato, un peccato.
So solo, Fitz, che la prossima volta che ci vedremo, tu starai brandendo contro di me Il grande Gatsby. Ti aspetto al varco. Ti aspetto trepidante.