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VERSO LA FINE C’È IL PRINCIPIO
L’omonima versione cinematografica è del 1953, cinque anni dopo l’uscita del romanzo, diretta da George More O’Ferrall, con Trevor Howard nel ruolo del protagonista Scobie.
Ogni tanto bisogna sgranchirsi, fare due passi, fare un po’ di moto, e respirare una boccata d’aria fresca…
Così come ogni tanto bisogna leggere Graham Greene.
O, come nel mio caso, rileggere, visto che Greene l’ho sempre frequentato molto. In entrambe le lingue.
Il film partecipò al Festival di Cannes. Parte degli esterni furono effettivamente girati in Sierra Leone, proprio dove è ambientato il romanzo di Greene, che conosceva bene quel paese.
Nel secolo di Joyce, un grande narratore che mette sempre al centro dei suoi romanzi una storia da raccontare, rivestita nel genere giallo, thriller, suspense, spy-story, a me fa gola.
[Come mi fa gola Joyce, nessun giudizio di merito]
Greene, e il narratore nei romanzi di Greene, non giudica. Mai.
E, scende sempre all’altezza dei suoi personaggi.
In questo brano, narratore e protagonista arrivano a confondersi:
Che stoltezza aspettarsi la felicità in un mondo così pieno di miserie! Aveva ridotto al minimo i suoi bisogni, nascosto le fotografie nei cassetti, cercato di cancellare i morti dalla memoria…. ma rimangono pur sempre gli occhi per vedere, le orecchie per udire. Che mi si mostri un uomo felice, e io vi mostrerò il suo egoismo, o la sua cattiveria, o perlomeno la sua ignoranza assoluta.
Invece di una classica colonna sonora musicale, si optò per musica tribale registrata durante le riprese.
The Heart of the Matter, il nocciolo della questione è da molti considerato il miglior romanzo di Greene: sembra contendersi la palma con Il potere e la gloria.
Personalmente però, credo che la darei a I commedianti.
Se uno sapesse le cose fino in fondo, dovrebbe sentir pietà anche per le stelle? Se uno raggiungesse quello che chiamano il nocciolo della questione.
E, nonostante il fastidio che sempre mi generano le questioni di fede religiosa, specie se cattolica - perché il pensiero corre subito al vaticano, e a quel referendum per rispedirlo ad Avignone che non si è mai fatto, e a tutti gli ipocriti bigotti altezza senso di colpa e family day - nonostante questo, io amo i romanzi di Greene, li godo proprio.
E amo anche questo che fa parte del ciclo cattolico.
E, di cattolicesimo è intriso, come quei cuori grondanti sangue in certe statue del cristo.
Oltre il protagonista interpretato da Trevor Howard, nel cast c’erano Elizabeth Allan, Maria Schell, Denholm Elliott, Peter Finch.
Così come è intriso di senso di colpa fino alla costa e alla cucitura, perché le cose che fanno davvero male sono quelle che è così terribilmente facile superare, perché gli esseri umani sono condannati alle conseguenze.
È ambientato in un posto che Greene non mette voglia di visitare, pur trasmettendone sia il fascino esotico che ferale:
Perché mai amo tanto questo posto? È forse perché qui la natura umana non ha ancora avuto tempo di mascherarsi? Qui nessuno avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente a mascherare. Qui si potevano amare le creature umane quasi come le ama Dio stesso, conoscendo il peggio di loro.
In un clima che limita gesti e parole, Dio può aspettare, perché:
come si può amare Dio a spese di una delle sue creature?
In mezzo a uomini e donne qualsiasi (mediocri) nel modo più assoluto, riuscire a mostrare Scobie come eroe, pur nella sua ordinarietà e banalità, richiede un’arte che Greene possiede pienamente.
Non è forse un eroe chi sa comprendere e perdonare gli altri ma non se stesso? Chi non si reputa più importante della sofferenza inflitta alle persone che ha intorno?
Il suicidio di Scobie, protagonista che all’inizio vediamo attraverso gli occhi di un altro personaggio, Wilson, come si farebbe in un film (e quanta frequentazione cinematografica dell’opera di Greene!), è gesto catartico e insieme atto di generosità, di giustizia, di amore (compassione) verso l’umanità.
Eppure, Greene sembra incurante del plot: in fondo si capisce dal principio chi è Wilson, il mistero sembra avere le gambe corte come le bugie [che invece le hanno lunghissime].
È Scobie che riempie la scena, che ci interessa seguire, di cui vogliamo sapere: Scobie ancora un novizio nel mondo dell’inganno, un uomo buono onesto integro nella sua ordinarietà.
Circondato da figure che sono veri personaggi e che Greene descrive con tocchi concisi ed esperti aggiungendo elementi alla trama, arricchendo lo scenario: serve davvero poco a Greene per calarci dentro, to put us in the picture.
Il nocciolo della questione diventò nella traduzione nostrana “L’incubo dei Mau Mau”.
E condurci in una costante caduta: dallo stato di grazia, caduta nell’amore, caduta nella disperazione, caduta in una terra di menzogne dalla quale non c’è ritorno:
Ma pare che, alla fin fine, non ci debba mai essere risparmiato niente. Per essere veramente umano, tu devi bere il tuo calice fino in fondo. Se una volta sei fortunato, o un’altra volta codardo, il calice ti viene presentato una terza.
Nonostante ciò, Scobie conserva tutta la sua umanità, e brilla in una luce che dura nel tempo:
Non gli era mai venuto in mente che la sua vita avesse una vera importanza. Non beveva, non fornicava, non mentiva, ma non aveva mai reputato virtù l’assenza di questi peccati dalla sua vita.
L’omonima versione cinematografica è del 1953, cinque anni dopo l’uscita del romanzo, diretta da George More O’Ferrall, con Trevor Howard nel ruolo del protagonista Scobie.
Ogni tanto bisogna sgranchirsi, fare due passi, fare un po’ di moto, e respirare una boccata d’aria fresca…
Così come ogni tanto bisogna leggere Graham Greene.
O, come nel mio caso, rileggere, visto che Greene l’ho sempre frequentato molto. In entrambe le lingue.
Il film partecipò al Festival di Cannes. Parte degli esterni furono effettivamente girati in Sierra Leone, proprio dove è ambientato il romanzo di Greene, che conosceva bene quel paese.
Nel secolo di Joyce, un grande narratore che mette sempre al centro dei suoi romanzi una storia da raccontare, rivestita nel genere giallo, thriller, suspense, spy-story, a me fa gola.
[Come mi fa gola Joyce, nessun giudizio di merito]
Greene, e il narratore nei romanzi di Greene, non giudica. Mai.
E, scende sempre all’altezza dei suoi personaggi.
In questo brano, narratore e protagonista arrivano a confondersi:
Che stoltezza aspettarsi la felicità in un mondo così pieno di miserie! Aveva ridotto al minimo i suoi bisogni, nascosto le fotografie nei cassetti, cercato di cancellare i morti dalla memoria…. ma rimangono pur sempre gli occhi per vedere, le orecchie per udire. Che mi si mostri un uomo felice, e io vi mostrerò il suo egoismo, o la sua cattiveria, o perlomeno la sua ignoranza assoluta.
Invece di una classica colonna sonora musicale, si optò per musica tribale registrata durante le riprese.
The Heart of the Matter, il nocciolo della questione è da molti considerato il miglior romanzo di Greene: sembra contendersi la palma con Il potere e la gloria.
Personalmente però, credo che la darei a I commedianti.
Se uno sapesse le cose fino in fondo, dovrebbe sentir pietà anche per le stelle? Se uno raggiungesse quello che chiamano il nocciolo della questione.
E, nonostante il fastidio che sempre mi generano le questioni di fede religiosa, specie se cattolica - perché il pensiero corre subito al vaticano, e a quel referendum per rispedirlo ad Avignone che non si è mai fatto, e a tutti gli ipocriti bigotti altezza senso di colpa e family day - nonostante questo, io amo i romanzi di Greene, li godo proprio.
E amo anche questo che fa parte del ciclo cattolico.
E, di cattolicesimo è intriso, come quei cuori grondanti sangue in certe statue del cristo.
Oltre il protagonista interpretato da Trevor Howard, nel cast c’erano Elizabeth Allan, Maria Schell, Denholm Elliott, Peter Finch.
Così come è intriso di senso di colpa fino alla costa e alla cucitura, perché le cose che fanno davvero male sono quelle che è così terribilmente facile superare, perché gli esseri umani sono condannati alle conseguenze.
È ambientato in un posto che Greene non mette voglia di visitare, pur trasmettendone sia il fascino esotico che ferale:
Perché mai amo tanto questo posto? È forse perché qui la natura umana non ha ancora avuto tempo di mascherarsi? Qui nessuno avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente a mascherare. Qui si potevano amare le creature umane quasi come le ama Dio stesso, conoscendo il peggio di loro.
In un clima che limita gesti e parole, Dio può aspettare, perché:
come si può amare Dio a spese di una delle sue creature?
In mezzo a uomini e donne qualsiasi (mediocri) nel modo più assoluto, riuscire a mostrare Scobie come eroe, pur nella sua ordinarietà e banalità, richiede un’arte che Greene possiede pienamente.
Non è forse un eroe chi sa comprendere e perdonare gli altri ma non se stesso? Chi non si reputa più importante della sofferenza inflitta alle persone che ha intorno?
Il suicidio di Scobie, protagonista che all’inizio vediamo attraverso gli occhi di un altro personaggio, Wilson, come si farebbe in un film (e quanta frequentazione cinematografica dell’opera di Greene!), è gesto catartico e insieme atto di generosità, di giustizia, di amore (compassione) verso l’umanità.
Eppure, Greene sembra incurante del plot: in fondo si capisce dal principio chi è Wilson, il mistero sembra avere le gambe corte come le bugie [che invece le hanno lunghissime].
È Scobie che riempie la scena, che ci interessa seguire, di cui vogliamo sapere: Scobie ancora un novizio nel mondo dell’inganno, un uomo buono onesto integro nella sua ordinarietà.
Circondato da figure che sono veri personaggi e che Greene descrive con tocchi concisi ed esperti aggiungendo elementi alla trama, arricchendo lo scenario: serve davvero poco a Greene per calarci dentro, to put us in the picture.
Il nocciolo della questione diventò nella traduzione nostrana “L’incubo dei Mau Mau”.
E condurci in una costante caduta: dallo stato di grazia, caduta nell’amore, caduta nella disperazione, caduta in una terra di menzogne dalla quale non c’è ritorno:
Ma pare che, alla fin fine, non ci debba mai essere risparmiato niente. Per essere veramente umano, tu devi bere il tuo calice fino in fondo. Se una volta sei fortunato, o un’altra volta codardo, il calice ti viene presentato una terza.
Nonostante ciò, Scobie conserva tutta la sua umanità, e brilla in una luce che dura nel tempo:
Non gli era mai venuto in mente che la sua vita avesse una vera importanza. Non beveva, non fornicava, non mentiva, ma non aveva mai reputato virtù l’assenza di questi peccati dalla sua vita.