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Marcel Proust scriveva che “ogni lettore, quando legge, legge se stesso”, e nessuna frase potrebbe descrivere meglio il mio rapporto con Anna Karenina.
Ma andiamo con ordine.
Quando lessi per la prima volta questo libro avevo diciassette anni e un caso avanzato di adolescenza problematica. I testi sacri su cui si basava la mia comprensione del mondo erano, nell’ordine: L’insostenibile leggerezza dell’essere, Cime tempestose e le canzoni degli Smiths. Twilight era stata per me un’opera formativa, e il mio amore per i poeti romantici aveva trasformato i muri della mia stanza in una galleria di citazioni di Keats. L’ambiente in cui ero cresciuta, insomma, aveva fatto del suo meglio per spingermi a sviluppare una visione delle relazioni sentimentali distorta e orientata al melodramma.
È a questo punto che entra in scena Anna Karenina. La mia reazione, ovviamente, è di amore immediato ed assoluto, non tanto per il romanzo in sé — quello è ben scritto, ma troppo dispersivo, troppo incentrato su quisquilie irrilevanti come la vita nei campi e le politiche economiche — quanto per Anna stessa, eroina tragica dal fascino irresistibile. Tutto in lei mi attira, mi conquista: dalla sua bellezza leggendaria, al suo cuore dominato da passioni violente, fino alla morte tragica (ma così poetica!) che la suggella ai miei occhi come la vittima innocente di una società moralista e ipocrita.
Vorrei essere Anna, o vorrei innamorarmi di Anna? Probabilmente entrambe le cose, ma in fondo non è importante: quel che conta è che ella assume all’istante un posto d’onore tra le mie icone letterarie. In lei rivedo il mio animo romantico, pronto a qualunque sacrificio in nome dell’amore (e pazienza se colui per cui mi sacrifico non farebbe mai lo stesso per me; che amore sarebbe se non facesse soffrire?). Quando Oblonskij dice della sorella che ”ella è, prima di tutto, una donna di cuore”, quella frase si imprime nella mia memoria come il simbolo di tutto ciò che vorrei mi rappresentasse. E nella mia memoria rimane, avvolta dal ricordo dorato dell’opera da cui è tratta, per oltre dieci anni.
Fino a quando, ormai adulta, non decido di riprendere in mano il romanzo, scoprendo con sgomento che dei miei ricordi romantici è rimasto poco o nulla.
Ai miei occhi di quasi trentenne, il capolavoro di Tolstoj appare come un’opera autocelebrativa e insopportabilmente moralista. Il protagonista è un palese alter ego dell’autore, che per fugare ogni dubbio gli affibbia pure il suo nome. La narrazione esalta continuamente le virtù di Lev(in), perfetta incarnazione dell’eroe tolstoiano che ama la campagna, detesta la vita mondana e finisce inspiegabilmente per sposare la fanciulla più ambita dall’alta società. I personaggi che lodano Levin sono positivi; quelli che lo disprezzano o che non sposano le sue idee sono stupidi, corrotti o destinati a una morte prematura.
L’autore si dilunga spesso in riflessioni su temi etici e politici, come la riforma agraria e la condizione della classe operaia; ma le sue riflessioni assumono, agli occhi del lettore moderno, un tono quasi grottesco. La prospettiva di chi le formula è sempre fredda, distaccata, palesemente estranea alla drammatica realtà che descrive: è il punto di vista di un nobile privilegiato che parla dei contadini, delle donne e delle minoranze etniche come si parlerebbe di animali in un giardino zoologico. Mentre i braccianti di Levin vivono nella miseria, lui passa il tempo a pontificare sulla bellezza del lavoro nei campi e sull’opportunità di concedere loro un’assistenza sanitaria di base. Se si pensa che questo libro venne dato alle stampe appena quarant’anni prima della rivoluzione russa, è facile immaginare quegli stessi contadini mentre prendono d’assalto la casa del padrone al grido di “Morte al nemico capitalista!”.
La delusione più cocente, però, è arrivata proprio da Anna. L’eroina della mia adolescenza si è rivelata essere una donna frivola e immatura, incapace di prendere decisioni sensate e assumersi qualsiasi responsabilità. Impulsiva, egoista, troppo impegnata a piangersi addosso per valutare con lucidità le conseguenze delle proprie azioni, la protagonista di Tolstoj mi ha spinta a chiedermi se al liceo avessi davvero letto lo stesso libro che troneggia ora sui miei scaffali. Non ho impiegato molto, però, per intuire la causa delle mie impressioni contrastanti: se anni fa mi identificavo così tanto con Anna è perché ella pensa e agisce esattamente come un’adolescente. Ma se è comprensibile che una ragazzina si comporti in maniera melodrammatica e irrazionale, lo stesso non si può dire di una donna matura.
Da questo punto di vista, rileggere Anna Karenina mi ha rivelato molte più cose su me stessa che sull’opera in sé. Mi ha spinto a riflettere su com’è cambiato nel tempo il mio approccio ai classici, e soprattutto mi ha confermato in via definitiva che lo sguardo di chi legge conta più del libro in sé.
Ma andiamo con ordine.
Quando lessi per la prima volta questo libro avevo diciassette anni e un caso avanzato di adolescenza problematica. I testi sacri su cui si basava la mia comprensione del mondo erano, nell’ordine: L’insostenibile leggerezza dell’essere, Cime tempestose e le canzoni degli Smiths. Twilight era stata per me un’opera formativa, e il mio amore per i poeti romantici aveva trasformato i muri della mia stanza in una galleria di citazioni di Keats. L’ambiente in cui ero cresciuta, insomma, aveva fatto del suo meglio per spingermi a sviluppare una visione delle relazioni sentimentali distorta e orientata al melodramma.
È a questo punto che entra in scena Anna Karenina. La mia reazione, ovviamente, è di amore immediato ed assoluto, non tanto per il romanzo in sé — quello è ben scritto, ma troppo dispersivo, troppo incentrato su quisquilie irrilevanti come la vita nei campi e le politiche economiche — quanto per Anna stessa, eroina tragica dal fascino irresistibile. Tutto in lei mi attira, mi conquista: dalla sua bellezza leggendaria, al suo cuore dominato da passioni violente, fino alla morte tragica (ma così poetica!) che la suggella ai miei occhi come la vittima innocente di una società moralista e ipocrita.
Vorrei essere Anna, o vorrei innamorarmi di Anna? Probabilmente entrambe le cose, ma in fondo non è importante: quel che conta è che ella assume all’istante un posto d’onore tra le mie icone letterarie. In lei rivedo il mio animo romantico, pronto a qualunque sacrificio in nome dell’amore (e pazienza se colui per cui mi sacrifico non farebbe mai lo stesso per me; che amore sarebbe se non facesse soffrire?). Quando Oblonskij dice della sorella che ”ella è, prima di tutto, una donna di cuore”, quella frase si imprime nella mia memoria come il simbolo di tutto ciò che vorrei mi rappresentasse. E nella mia memoria rimane, avvolta dal ricordo dorato dell’opera da cui è tratta, per oltre dieci anni.
Fino a quando, ormai adulta, non decido di riprendere in mano il romanzo, scoprendo con sgomento che dei miei ricordi romantici è rimasto poco o nulla.
Ai miei occhi di quasi trentenne, il capolavoro di Tolstoj appare come un’opera autocelebrativa e insopportabilmente moralista. Il protagonista è un palese alter ego dell’autore, che per fugare ogni dubbio gli affibbia pure il suo nome. La narrazione esalta continuamente le virtù di Lev(in), perfetta incarnazione dell’eroe tolstoiano che ama la campagna, detesta la vita mondana e finisce inspiegabilmente per sposare la fanciulla più ambita dall’alta società. I personaggi che lodano Levin sono positivi; quelli che lo disprezzano o che non sposano le sue idee sono stupidi, corrotti o destinati a una morte prematura.
L’autore si dilunga spesso in riflessioni su temi etici e politici, come la riforma agraria e la condizione della classe operaia; ma le sue riflessioni assumono, agli occhi del lettore moderno, un tono quasi grottesco. La prospettiva di chi le formula è sempre fredda, distaccata, palesemente estranea alla drammatica realtà che descrive: è il punto di vista di un nobile privilegiato che parla dei contadini, delle donne e delle minoranze etniche come si parlerebbe di animali in un giardino zoologico. Mentre i braccianti di Levin vivono nella miseria, lui passa il tempo a pontificare sulla bellezza del lavoro nei campi e sull’opportunità di concedere loro un’assistenza sanitaria di base. Se si pensa che questo libro venne dato alle stampe appena quarant’anni prima della rivoluzione russa, è facile immaginare quegli stessi contadini mentre prendono d’assalto la casa del padrone al grido di “Morte al nemico capitalista!”.
La delusione più cocente, però, è arrivata proprio da Anna. L’eroina della mia adolescenza si è rivelata essere una donna frivola e immatura, incapace di prendere decisioni sensate e assumersi qualsiasi responsabilità. Impulsiva, egoista, troppo impegnata a piangersi addosso per valutare con lucidità le conseguenze delle proprie azioni, la protagonista di Tolstoj mi ha spinta a chiedermi se al liceo avessi davvero letto lo stesso libro che troneggia ora sui miei scaffali. Non ho impiegato molto, però, per intuire la causa delle mie impressioni contrastanti: se anni fa mi identificavo così tanto con Anna è perché ella pensa e agisce esattamente come un’adolescente. Ma se è comprensibile che una ragazzina si comporti in maniera melodrammatica e irrazionale, lo stesso non si può dire di una donna matura.
Da questo punto di vista, rileggere Anna Karenina mi ha rivelato molte più cose su me stessa che sull’opera in sé. Mi ha spinto a riflettere su com’è cambiato nel tempo il mio approccio ai classici, e soprattutto mi ha confermato in via definitiva che lo sguardo di chi legge conta più del libro in sé.