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Le confessioni: ”se nessuno me lo chiede so cos'è, ma se mi chiede che cos'è, non lo so più”
Anche se volessi fare una vera riflessione su questo libro non ne sarei capace: è troppo. Alle Confessioni si potrebbe attribuire il gioco di parole che nel libro undicesimo introduce all'esperienza del tempo: ”se nessuno me lo chiede so cos'è, ma se mi chiede che cos'è, non lo so più”.
Per farlo:
mi bisognerebbe la fede, che non ho, per capire il colloquio a tratti passionale tra Agostino e Dio;
mi bisognerebbe, per penetrarne la filosofia e la spiritualità, la conoscenza dei padri della chiesa interpreti delle scritture e di Plotino di cui francamente non sono mai riuscita a capire quel pochissimo che ho letto;
mi bisognerebbero cinquant’anni di meno come ai tempi della prima lettura - non so più se ne capii qualcosa - per non sembrarmi esagerati sensi di colpa e vergogna per atti e fatti comuni a tutte le adolescenze e gioventù di ogni epoca e a maggior ragione per quella società di decadenza;
mi bisognerebbe non avere, sempre, nella mente la “shoah” per accettare che il male non esiste essendo semplicemente mancanza di bene.
E allora?
Stupiamoci e chiniamo la testa di fronte alla più grande e profonda riflessione sul tempo che sfiora l’intuizione dello spazio-tempo e in cui il compiacimento del bel ragionamento, che permea tutto il libro, quasi scompare davanti al sincero sbigottimento di Agostino per i proteiformi aspetti del tempo, “ancorato al soggetto che porta in sé il passato, e si tende verso il futuro, conoscibile attraverso lo stesso passato» come scrisse Maria Betterini, studiosa di Agostino.
Anche se volessi fare una vera riflessione su questo libro non ne sarei capace: è troppo. Alle Confessioni si potrebbe attribuire il gioco di parole che nel libro undicesimo introduce all'esperienza del tempo: ”se nessuno me lo chiede so cos'è, ma se mi chiede che cos'è, non lo so più”.
Per farlo:
mi bisognerebbe la fede, che non ho, per capire il colloquio a tratti passionale tra Agostino e Dio;
mi bisognerebbe, per penetrarne la filosofia e la spiritualità, la conoscenza dei padri della chiesa interpreti delle scritture e di Plotino di cui francamente non sono mai riuscita a capire quel pochissimo che ho letto;
mi bisognerebbero cinquant’anni di meno come ai tempi della prima lettura - non so più se ne capii qualcosa - per non sembrarmi esagerati sensi di colpa e vergogna per atti e fatti comuni a tutte le adolescenze e gioventù di ogni epoca e a maggior ragione per quella società di decadenza;
mi bisognerebbe non avere, sempre, nella mente la “shoah” per accettare che il male non esiste essendo semplicemente mancanza di bene.
E allora?
Stupiamoci e chiniamo la testa di fronte alla più grande e profonda riflessione sul tempo che sfiora l’intuizione dello spazio-tempo e in cui il compiacimento del bel ragionamento, che permea tutto il libro, quasi scompare davanti al sincero sbigottimento di Agostino per i proteiformi aspetti del tempo, “ancorato al soggetto che porta in sé il passato, e si tende verso il futuro, conoscibile attraverso lo stesso passato» come scrisse Maria Betterini, studiosa di Agostino.