...
Show More
Le prime (due) cose da dire su 31 canzoni è che è un libro in parte “reazionario”: 1) perché parla di una cosa che l’autore ama, “cosa di per sé difficile, perché uno ha molte più cose da dire su ciò che non va” e 2) perché è un prodotto “uscito così”, spontaneo (“senza forzature né imbottiture”), senza troppi piani studiati a tavolino (struttura, conta delle battute, etc), proprio come dovrebbe essere l’ascolto della musica che ci piace.
Parla delle canzoni che l’autore considera le sue preferite (magari quelle che gli sono venute in mente nel periodo in cui l’ha scritto): alcune perchè ispirate da ricordi personali, altre semplicemente perché gli piacciono. Se dovessi attribuire una parola a questo specifico prodotto di Hornby è quindi quella già detta poche righe più su: spontaneità, quella che dall’ascolto passa alla scrittura.
Non ci sono “ascolti della vergogna” che tengano: ogni brano a modo suo può lasciarci addosso qualcosa di prezioso. È così per i pezzi pop “usa e getta” che ci fanno scoprire, al di là della loro banale semplicità tecnica, che viviamo tutti nello stesso mondo e godiamo tutti delle stesse piccole cose (e se non è già un piccolo miracolo questo!). È così per il rock/metal chiassoso che si ascolta da giovani perché quando non si conosce ancora i propri gusti è più facile “non scegliere” e coprire tutto col rumore. È così per i pezzi che ti tirano fuori una spiritualità inaspettata se sei il tipo che non crede in Dio: quei pezzi da brividi lungo la schiena (ognuno ha i propri) che ti fanno sentire e vedere cose che non ci sono e che non possono essere viste e ti confermano l’esistenza di una “immortalità dell’anima o, come minimo, (di) una coscienza umana che ci unisce tutti”, pezzi che ci confermano che “la vita è breve ma ha un senso”.
Da lettrice e appassionata di musica l’ho apprezzato particolarmente nei passaggi in cui Nick Hornby ragiona sul rapporto che abbiamo con la musica (e con l’arte in generale): come ci rapportiamo ad essa, come reagiamo e cosa da lei ci aspettiamo.
Interessante anche per scovare qualche perla poco conosciuta e farne propria la storia.
Parla delle canzoni che l’autore considera le sue preferite (magari quelle che gli sono venute in mente nel periodo in cui l’ha scritto): alcune perchè ispirate da ricordi personali, altre semplicemente perché gli piacciono. Se dovessi attribuire una parola a questo specifico prodotto di Hornby è quindi quella già detta poche righe più su: spontaneità, quella che dall’ascolto passa alla scrittura.
Non ci sono “ascolti della vergogna” che tengano: ogni brano a modo suo può lasciarci addosso qualcosa di prezioso. È così per i pezzi pop “usa e getta” che ci fanno scoprire, al di là della loro banale semplicità tecnica, che viviamo tutti nello stesso mondo e godiamo tutti delle stesse piccole cose (e se non è già un piccolo miracolo questo!). È così per il rock/metal chiassoso che si ascolta da giovani perché quando non si conosce ancora i propri gusti è più facile “non scegliere” e coprire tutto col rumore. È così per i pezzi che ti tirano fuori una spiritualità inaspettata se sei il tipo che non crede in Dio: quei pezzi da brividi lungo la schiena (ognuno ha i propri) che ti fanno sentire e vedere cose che non ci sono e che non possono essere viste e ti confermano l’esistenza di una “immortalità dell’anima o, come minimo, (di) una coscienza umana che ci unisce tutti”, pezzi che ci confermano che “la vita è breve ma ha un senso”.
Da lettrice e appassionata di musica l’ho apprezzato particolarmente nei passaggi in cui Nick Hornby ragiona sul rapporto che abbiamo con la musica (e con l’arte in generale): come ci rapportiamo ad essa, come reagiamo e cosa da lei ci aspettiamo.
Interessante anche per scovare qualche perla poco conosciuta e farne propria la storia.