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IL CORRIDOIO DELLA PAURA
Il titolo italiano gioca con i termini macchina e corsia, e io, prima di aprire il libro, ci sono cascato, ho pensato a qualcosa che avesse a che fare con le corse automobilistiche.
In realtà, la macchina è quella per l’elettroshock.
E la corsia, o reparto (in originale ward), è quella di un ospedale psichiatrico.
Di conseguenza anche il mio titolo gioca un pochino, citando un magnifico film del 1963, stesso anno di pubblicazione di questo racconto (racconto lungo o novella breve? – che in verità fu pubblicato sulla rivista Playboy due anni prima) scritto e diretto dal grande Sam Fuller: Shock Corridor. Film terrorizzante per quanto inquietante (un giornalista sotto mentite spoglie entra in manicomio per studiarlo da vicino e finisce col restarci rinchiuso per sempre!).
Come ispira profonda inquietudine, che si trasforma in paura, questa storia allucinata e paranoica di Willeford, man mano che l’ospedale psichiatrico diventa sempre più manicomio, diventa sempre più reclusione forzata, con la terrorizzante presenza della macchina per l’elettroshock che giace in attesa d’essere impiegata accanto al gruppo che svolge terapia di gruppo.
Giustamente viene paragonata alla sedia elettrica: uniche differenze sono la temperatura, e il tempo di esposizione alla scarica elettrica.
Il protagonista è un figlio di Hollywood: regista di poco più di trent’anni non ha ancora imparato a piegare la testa ai capricci della star, o presunta tale, di turno. Finisce ricoverato. Ha paura di perdere la memoria. Rifiuta qualsiasi terapia. Poco prima di finire steso sul lettino dell’elettroshock…
Willeford costruisce la sua storia come un flusso di pensiero, un lungo monologo che contempla bei dialoghi, facendo ampio uso del flashback e con un finale a sorpresa. Che non smorza l’inquietudine.
Nel breve saggio introduttivo il traduttore Matteo Codignola scrive:
Sotto queste frasi ossessionanti, è infatti difficile sentire altro che il riff più persecutorio di tutta la musica recente, fra parentesi scritto solo due anni dopo: se non vi fidate mettete sul piatto il primo movimento di “A Love Supreme” e cominciate a leggere.
A prescindere se sia l’accompagnamento musicale giusto (personalmente dissento da abbinare musica alla lettura, una delle due finisce sprecata), il sax e la musica di Trane sono sempre grandiosi.
Il titolo italiano gioca con i termini macchina e corsia, e io, prima di aprire il libro, ci sono cascato, ho pensato a qualcosa che avesse a che fare con le corse automobilistiche.
In realtà, la macchina è quella per l’elettroshock.
E la corsia, o reparto (in originale ward), è quella di un ospedale psichiatrico.
Di conseguenza anche il mio titolo gioca un pochino, citando un magnifico film del 1963, stesso anno di pubblicazione di questo racconto (racconto lungo o novella breve? – che in verità fu pubblicato sulla rivista Playboy due anni prima) scritto e diretto dal grande Sam Fuller: Shock Corridor. Film terrorizzante per quanto inquietante (un giornalista sotto mentite spoglie entra in manicomio per studiarlo da vicino e finisce col restarci rinchiuso per sempre!).
Come ispira profonda inquietudine, che si trasforma in paura, questa storia allucinata e paranoica di Willeford, man mano che l’ospedale psichiatrico diventa sempre più manicomio, diventa sempre più reclusione forzata, con la terrorizzante presenza della macchina per l’elettroshock che giace in attesa d’essere impiegata accanto al gruppo che svolge terapia di gruppo.
Giustamente viene paragonata alla sedia elettrica: uniche differenze sono la temperatura, e il tempo di esposizione alla scarica elettrica.
Il protagonista è un figlio di Hollywood: regista di poco più di trent’anni non ha ancora imparato a piegare la testa ai capricci della star, o presunta tale, di turno. Finisce ricoverato. Ha paura di perdere la memoria. Rifiuta qualsiasi terapia. Poco prima di finire steso sul lettino dell’elettroshock…
Willeford costruisce la sua storia come un flusso di pensiero, un lungo monologo che contempla bei dialoghi, facendo ampio uso del flashback e con un finale a sorpresa. Che non smorza l’inquietudine.
Nel breve saggio introduttivo il traduttore Matteo Codignola scrive:
Sotto queste frasi ossessionanti, è infatti difficile sentire altro che il riff più persecutorio di tutta la musica recente, fra parentesi scritto solo due anni dopo: se non vi fidate mettete sul piatto il primo movimento di “A Love Supreme” e cominciate a leggere.
A prescindere se sia l’accompagnamento musicale giusto (personalmente dissento da abbinare musica alla lettura, una delle due finisce sprecata), il sax e la musica di Trane sono sempre grandiosi.