The calumny about Handke ("genocide denier" "Serbian nationalist" blah blah blah) is dispelled by reading him. It's too bad this is out of print and not in many libraries. It's a fine book and a brave one.
Original perspective on Yugoslav war in the 90s. Winning Nobel prize brought new popular and huge criticism but this book written during Serbia trip primary argues for balanced reporting of the civil war in which there are many guilty parties including the West.
Ich wollte doch wissen, ob die Schmutzkübel, die jetzt über Peter Handke ausgeschüttet werden, irgendwie zu rechtfertigen sind. Ist, was Handke über Serbien und den Krieg schreibt, "Restmüll", wie heute in SPON zu lesen war? Hatte eine Dame namens Stokowski das Recht, mir "räudigen Trotz" (SPON, 15.10.2019) zu unterstellen, wenn ich nicht einsehe, das Werk und Autor nicht zu trennen und also kein Nobelpreis an jemanden zu verleihen ist, der zu den Mordtaten "der Serben" (wem sonst?) geschwiegen hätte? Mal abgesehen von dem sprachlichen Missgriff und der damit einher gehenden Beleidigung eines Autors und seiner Leser (!) zeigt der ganze Artikel, dass die Frau von den Dingen, über die sie urteil bestimmt schon "mal was gehört" oder "woanders was gelesen" hat, was sie nun wiederkäut. Was für ein erbärmliches Armutszeugnis für den deutschen Journalismus! Der ganzen Einseitigkeit der damaligen Kriegsberichterstattung folgend, die von der BR Deutschland ohne Not (vor)eilig anerkannte Kroatenrepublik war nun mal (als alter faschistischer Verbündeter?) unser Liebling gegen die damals schon als russophil verdächtigten Serben, folgt nun der "zweite Aufguss" in Form von Autorenschelte. Dabei will Handke nur die "Geschichte der Zerschlagungskriege" (S.81) - welch treffende Bezeichnung (!) - schreiben, die sich schwer auf kaum noch zu rekonstruierende Fakten reduzieren lässt, weil längst hüben wie drüben die Legenden gestrickt sind. Aber darauf kommt es dem Autor auch gar nicht an. "Für den Frieden", merkt er an, "braucht es doch anderes" (S. 70). Was? Zuhören können und Verstehen wollen! Genau das, was der deutsche Schwarz- weiß- Journalismus nicht mehr fertig bringt, weil er es auch gar nicht will oder wollen darf. Die Rollen sind eben verteilt! Dagegen wendet sich Handke, der ausdrücklich einem Serben zustimmt, den er mit folgenden Worten zitiert: "Vor allem einer im Raum war es, aus dem es schließlich leibhaftig herausschrie, wie schuldig die serbischen Mächtigen am heutigen Elend ihres Volkes seien, von der Unterdrückung der Albaner im Kosove bis zu der leichtfertigen Zulassung der Krajina- Republik. Es war ein Aufschrei, keine Meinungsäußerung, keine bloß oppositionelle Stimme aus einem Kulturzirkel im Hinterzimmer. Und dieser Serbe sprach auch einzig über seine eigenen Oberen; die anderwärtigen Kriegshunde blieben ausgespart, so als schriee es von ihren Taten von alleine zum Himmel, oder sonstwohin." (S. 44) - Kurz: Ich habe gesucht und gesucht und ich habe keinen Satz über die Verheimlichung oder gar Verherrlichung serbischer Kriegsverbrechen gelesen. Was ich las, was aus jeder Zeile spricht, ist die Skepsis dem offiziellen Geschichtsbild gegenüber und die Achtung vor dem einfachen und gastfreundlichen serbischen Volk. Wenn schon das nicht mehr sein darf, für wie verkommen muss man dann das deutsche Feuilleton (bis auf wenige Ausnahmen) halten? - Davon ab: Die Handke eigene Berufung auf das Poetische habe ich zumindest in diesem Text als literarische Qualität nicht finden können. Eher ist der Text journalistisch zu nennen. Schnell hingeworfen und ohne "höhere" (literarische) Ambitionen - wie es scheint. Deshalb auch nur drei Sterne. Dafür hätte ich Handke den Preis auch nicht zugesprochen, aber um dieses Buch ging es ja auch nicht. Darum geht es nur, wenn man den Autor diskreditieren will. Ich empfehle dann, es selbst zu lesen. Ob Handke sich an anderer Stelle, etwa in Interviews, missverständlich oder sonstwie kritikwürdig ausgedrückt hat, kann ich nicht beurteilen. Auch deshalb nicht, weil die von mir durchgesehenen Artikel zum Thema mit Quellenangaben geizen. Warum wohl? Vielleicht, weil es schon 1914 hieß "Serbien muss sterbien" und auch heute jede Kontaktaufnahme zu Russland hübsch ins ALTE FEINDBILD PASST? In Sachen Nationalismus schenken sich jedenfalls alle Zerfallsprodukte Jugoslawiens nichts, auch wenn wir das (vielleicht wegen der schönen kroatischen Küsten?) nicht wahr haben wollen. Handke geht es um "Frieden", nicht nur um den auf dem Papier, sondern um den wirklichen, den ausgesöhnten, in dem beide Seite aufeinander zugehen und das Kriegsbeil begraben. Was ist eines Nobelpreisträgers würdiger?
Giustizia per la realtà, più che giustizia per la Serbia, mi pare lo spazio che Handke tenta di circoscrivere con questo suo piccolo testo. Non nel senso che nell’orrore jugoslavo una diversa attribuzione delle responsabilità e delle colpe sia incontestabile, sia una “realtà” mistificata – bensì con l’intenzione di rendere giustizia a una realtà che i giudizi, le generalizzazioni, l’esigenza – spesso in buona fede; altre volte, a suo dire, no – di semplificare per comprendere e agire maltrattano, cancellano. È il grande flusso di notizie che debordano dai giornali e dalla televisione che Handke sottopone a critica, stigmatizzandone la potenza deformante: il modo in cui la realtà viene distorta dalle inquadrature, dai fermo-immagine, da titoli e sottotitoli, dai nuovi epiteti formulari, dai ritmi e dalle proporzioni con cui le notizie sono rilasciate ecc. «Nulla contro alcuni giornalisti – più che rivelatori – scopritori sul luogo (o meglio ancora: implicati nel luogo e negli uomini del luogo), viva questi diversi esploratori sul campo! Parecchio invece contro le bande di mestatori a distanza che confondono la loro professione di scrittori con quella di un giudice o addirittura col ruolo di un demagogo, e pestando attraverso gli anni sempre nello stesso mortaio di parole e di immagini, dal palco su cui pontificano all’estero sono, a modo loro, mastini di guerra altrettanto feroci di quelli sul campo di battaglia» (p. 75). L’occhio puntato sul “luogo”, la realtà da scoprire, nelle sue minime articolazioni: «villaggi fittamente concatenati, formati da fattorie dalla pianta sempre complessa, per così dire piccoli villaggi all’interno del grande villaggio» (p. 40); «e le orde di corvi sempre più fitte sull’asfalto in genere deserto, a proposito dei quali il mio compagno di viaggio disse poi com’è strano che tra i corvi ci sia ogni volta mescolata una gazza – proprio quando volevo attirare la sua attenzione appunto su questo» (p. 66). La realtà si rivela dietro apparenze semplificanti: è il particolare che rompe l’uniformità. È necessario porsi in ascolto per coglierlo, al fine di percepire la varietà, di penetrare all’interno di ciò che è complesso: nel villaggio, altri villaggi; la gazza in mezzo ai corvi. L’obiettivo è dissolvere le incrostazioni di pregiudizi, strappare le etichette, bloccare le conclusioni naturali – che “naturali” non sono, ma frutto di condizionamenti o di un immaginario vecchio di secoli: «poi figure d’uomini incuranti delle intemperie, con addosso specie di uniformi, dappertutto sulle strade di confine, nelle locande di confine, e senza volerlo noi, anche Zarko che ci aveva di nuovo raggiunto dopo la notte presso la sua occasionale famiglia, vedevamo in loro naturalmente (?) dei killer paramilitari, basta guardare quegli occhi, “esperti di uccisioni”» (pp. 59-60); «la guardia di confine con il suo sguardo da tiratore – o non era piuttosto una tristezza come inguaribile, anche inavvicinabile?» (p. 61). L’operazione di disvelamento non dovrebbe curarsi neppure di simbolismi venerabili, gloriosi: «durante il viaggio alla volta di Porodin attraversammo finalmente il molto, il fin troppo cantato fiume Morava, certo costretto in un ruolo di simbolo e forzato in un alveo emblematico anche a causa dei turchi e delle guerre balcaniche, adesso però semplicemente e autunnalmente povero d’acqua, i sassi affioranti; accanto al ponte stradale, la vecchia carrareccia per carri e pedoni, semisprofondata» (p. 43). La rivelazione si fa però a sua volta “emblematica”, una realtà denudata da segni intenzionali o antichi e quasi naturali; e tuttavia carica di segni ugualmente eloquenti: povertà della Serbia, ma prima ancora nudità, semplicità – quindi verità. L’operazione è delicata, perché comporta la manipolazione di quegli stessi simboli, di quelle immagini significative che la propaganda usa; ma che sono anche gli strumenti dello scrittore – e il linguaggio umano. L’intento che anima lo svelamento non è “collezionistico”, né risente del fascino esercitato da una realtà pura, intatta, non raggiunta dai nostri sfaceli. L’intento è al contrario umanistico: la ricomposizione di un tessuto comune a partire dall’alfabeto delle percezioni e dei sentimenti. Ecco come Handke descrive l’operazione che compie: «proprio seguendo il tortuoso percorso della registrazione di determinate cose secondarie, comunque molto più efficace che attraverso il martellamento dei fatti principali, si risveglia quel ricordare collettivo, quella seconda infanzia comune. “In un punto del ponte c’è stata per anni un’asse traballante”. – “Sì, te ne sei accorto anche tu?” “In un punto sotto il matroneo si sentiva l’eco dei passi”. – “Sì, te ne sei accorto anche tu?” Oppure semplicemente deviare dalla prigionia, di noi tutti, nelle chiacchiere della storia e dell’attualità verso un presente incomparabilmente più fecondo: “Guarda, adesso nevica. Guarda, lì giocano dei bambini” (l’arte della deviazione; l’arte come la deviazione essenziale). E così là sulla Drina sentii la necessità di far danzare un sasso sull’acqua, lanciandolo verso la sponda bosniaca (solo che poi non ne trovai neanche uno)» (pp. 82-83). (Forse il fallimento è garanzia della buona intenzione, dell’essersi mossi sul retto cammino, di non aver piegato la realtà allo scopo? La prosa di Handke, articolata e sfuggente, con il suo centro che si sposta sempre là dove non ci si aspetta, traduce, mi pare, il desiderio di sfuggire ai paragrafi serrati e “naturali” dei sermoni e delle orazioni giornalistiche che hanno ridotto i serbi – un intero popolo! – a una collezione di cliché; ma è anche, temo, inefficace, inascoltabile nella concitazione, quando è necessario decidere – quando i cliché e i pregiudizi rendono tutto più facile.) Il discorso dell’autore si spinge anche sul piano ideologico: la scelta secessionista, la divisione diventano frammentazione, indebolimento, delimitazione apparente di un orticello in cui ad altri sarà facile penetrare. La questione non è soltanto culturale (identità contro multiculturalismo ecc.), ma anche economica: «sentii la cassetta del suo transistor, una musica orientale, quasi già araba, a volume piuttosto basso, come quella che una volta qui aveva risuonato insieme a mille altre melodie e nel frattempo era stata per così dire bandita dallo spazio aereo; […] e sebbene grazie al suono i dintorni sembrassero adesso aprirsi ed estendersi di nuovo, fino al meridione più estremo, già subito greco, questo senso di continente (vigoroso in contrasto con quello “di oceano”) svanì quasi subito, e nell’aria vibrò soltanto un dolore da arto mancante, violento, per certo non semplicemente personale» (p. 69): è la chiusura dei grandi orizzonti, dei grandi progetti – il confezionamento di piccoli Stati folklorici, che potranno vendersi bene. Ecco che alla televisione di Stato si ammira il «presidente sloveno, un tempo un funzionario capace e orgoglioso?, che però adesso offre il suo paese agli stranieri con l’atteggiamento di un cameriere, quasi di un lacchè, come se volesse adeguarsi alla lettera a quella dichiarazione di un imprenditore e committente tedesco secondo la quale gli sloveni non sarebbero questo o quest’altro, bensì “una diligente e laboriosa popolazione alpina”» (p. 67). La riemersione del particolare che va perso nelle generalizzazioni, nello sguardo rapace che vuole cogliere il senso in vista dell’azione, suggerisce anche una vita più vera, un’esistenza che è stata costretta a farsi ascetica e divenuta in tal modo più profonda, densa, piena: «[della Serbia] mi è rimasta l’immagine di una realtà quotidiana, se paragonata alla nostra, più acuita e quasi già cristallina. A causa dello stato di guerra? No, piuttosto a causa di un intero, grande popolo che sa di essere pubblicamente messo al bando in tutta Europa e lo vive come qualcosa di assurdamente ingiusto, e adesso vuole mostrare al mondo, anche se questo non ne vuol prendere atto in alcun modo, che la realtà è abbastanza diversa, non solo sulle strade, ma anche in disparte» (p. 70). In conclusione, è intenso e acuto il rimpianto che Handke esprime – ma al tempo stesso un augurio rivolto ai suoi lettori: «e di fronte alla Drina pensavo, e penso ora anche qui alla scrivania: con le guerre in Iugoslavia la mia generazione non ha perso l’opportunità di diventare adulta? Adulta non come i membri così numerosi, pieni di sé, bell’e pronti, incasellati, dalle opinioni malleabili, in qualche modo internazionali e insieme talmente gretti della generazione dei padri e degli zii, ma adulta, come? Più o meno così: decisa eppure aperta, o permeabile, o per dirla con Goethe: “duttile”, e per motto forse i versi dello stesso maestro tedesco-universale “Come un Bambino/Invincibile”, con la variante Come un bambino/Vincibile. E con questo modo di essere adulti, pensavo io, figlio di un tedesco, uscire dalla storia di questo secolo, da questa catena di sventure, uscire verso un’altra storia» (p. 81).
La riflessione di Handke prosegue nell’n Appendice estiva a un viaggio d’invernon.
Aslında fena olmayan bir kitap olabilirmiş. Tabii eğer alıntıda da görüldüğü üzere virgüller ve parantezlerle dolu berbat bir çevirisi olmasaymış, bir de yazar, yolculuğu ile alakasız bölümler koyup ipe sapa gelmez fikirlerini savunmaya kalkmasaymış.
Kitabın arkasında şöyle bir alıntı var: "Ah, bak işte Sırp yandaşı' ... diyen olursa, bundan sonrasını okumasa da olur." Tam isabet etmiş gerçekten çünkü Peter Handke, Sırp yandaşı ve diktatör Miloseviç'in destekçisiymiş. Srebrenitsa'daki soykırımı inkar etmiş. Kitaba başlarken yazarın adını hiç duymamıştım, ilk birkaç sayfayı okuduktan sonra araştırma gereği hissettim. 2019'da da Nobel ödülü aldığını öğrendim. Bu ödülün Handke'ye verilmesi ciddi bir tepki almış.
1995 yılında yazılan bu kitapta ise eleştirilerin farkında olacak ki ılımlı, tarafsız görünmeye çalışıyor. Medyayı eleştiriyor, Bosna Hersek'te ya��anmış acıları yok saymadığını söylüyor; ama sonrasında sorduğu sorularla yok sayıyor esasında ve tarafını koruduğu anlaşılıyor. Bu kısımlar sinirimi bozdu ve kitabı yarım bırakmak istedim, fakat devam ettim.
Üstte anlattığım kısımları yok sayarsak, sıradan bir gezi yazısı diyebilirim. 1995 yılındaki Sırbistan'ı, kaldığı oteli, gözlemlerini anlatmış. Herhangi bir blog'da da benzer bir yazıyı okuyabilirdim. Şu bookstagram/Goodreads hesabını kurdum kuralı en sevmediğim kitap oldu. Kendimi çok zorladım ama tutan bir tarafını bulamıyorum. Sanırım daha da söyleyeceğim bir şey yok.
Questo premio Nobel molto discutibile a pochi chilometri da Srebrenica si chiedeva le cause del massacro di 7500 musulmani bosniaci e non riusciva a darsi una risposta: che erano stati i serbi suoi amici…nel più terribile genocidio in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale!
Along with his decision to speak at Milosivic's funeral, this is the book that got Handke in trouble--that motivated critics and observers to accuse him of apologizing for the Bosnian Serbs' genocide and ethnic cleansing and to denounce his Nobel award. I can't speak to Handke's decision to attend and speak at the funeral, but here are a few thoughts about the book. 1) Handke does excessively romanticize Serbia--the green of the Serbian forests are the greenest, the waters the bluest, etc.--but he does so in part because he believes many others have excessively demonized Serbians. He thinks that a narrative of Serbian Christians are Bad/Bosnian Muslims are Victims got set in stone early in the conflict, and the rest of the war was interpreted through that procrustean bed of a lens, when he thinks that the causes of the war were more complicated than simply Serbian aggression, i.e. he thinks the Bosnian Muslims deserved some of the blame, and that atrocities were committed on both sides, a point he's right about, although the UN evidence is that many more atrocities and war crimes were committed by the Bosnian Serbians than by the Bosnian Muslims. 2) Handke does admit that the Serbians committed atrocities and genocide against the Bosnian Muslims, but not without prodding. What he does say is that the motivations for this genocide (especially the horror at Srebrinica) deserve to be explained with more psychological sensitivity and empathy (which does not have to be sympathy, although it's not clear Handke always sustains the difference) than simply to say "the aggressors were just psychopaths". That strikes me as an interesting recommendation for all attempts at understanding the other--historical, literary, sociological--perhaps especially the other who has done something evil--not to justify the behavior, but to try to understand it.
Не знам да ли могу бити објективан у вези ове књиге, искрено нити желим. Оно што желим је да се захвалим Хандкеу и осталим светским умовима који никада, ни по којој цени, неће бити на супротној страни.